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regione Campania

Ultimo Aggiornamento: 22/12/2004 21:21
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Il Munaciello
Nelle leggende campane si trovano esseri spaventosi, ma tra questi si inserisce un esserino con poteri magici: il munaciello, un nano mostruoso con fibbie argentate sulle scarpe, chierica e berretto.


A Napoli assume due personalità: se ha in simpatia i padroni arreca buona sorte e prosperità; se odia una famiglia le provoca guai. E' così vasta la testimonianza che riguarda questa simpatica "entità" che non vi è posto per nessun dubbio sulle sue "manifestazioni", che spesso sono oggetto di vivaci discussioni - da "basso" a "basso" - su come "onorare" questo spiritello che si mostra sotto forma di vecchio-bambino vestito col saio dei trovatelli accolti nei conventi. Scalzo, scheletrico, lascia delle monete sul luogo della sua apparizione come se volesse ripagare le persone, in genere fanciulle procaci e allegre, dello spavento provato o di inconfessate (dalle fanciulle) confidenze "palpatorie" che ama a volte concedersi. Vi sono due ipotesi sulla sua origine:

La prima ipotesi vuole l'inizio di tutta la vicenda intorno all'anno 1445 durante il regno Aragonese. La bella Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe, si innamora del bel Stefano Mariconda, un garzone. Naturalmente l'amore tra i due è fortemente contrastato. Il fato volle che finisse in tragedia. Stefano viene assassinato nel luogo dei loro incontri segreti mentre Caterinella si rinchiude in un convento. Di lì a pochi mesi nascerà un bambino da Caterinella. Le suore del convento lo adotteranno cucendogli loro stesse vestiti simili a quelli monacali con un cappuccio per mascherare le deformità di cui il ragazzo soffriva. Fu così che per le strade di Napoli veniva chiamato " lu munaciello". Gli si attribuirono poteri magici fino ad arrivare alla leggenda che oggi tutti i napoletani conoscono. Anche lu munaciello morì misteriosamente.


La seconda ipotesi vuole che il Munaciello sia il gestore degli antichi pozzi d'acqua che, in molti casi, aveva facile accesso nella case passando attraverso i cunicoli che servivano a calare il secchio. I dispetti li faceva forse perché i proprietari del pozzo non provvedevano a pagarlo per i suoi servizi.

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Il Principe di San Severo

Il Principe di Sansevero



Nato a Torremaggiore (Foggia)
nel 1710 e morto a Napoli nel 1771.

La grande Scuola Alchemica Napoletana, che coinvolse e coinvolge studiosi di provato valore scientifico ed operò importantissime ricerche riguardanti i metalli e le loro proprietà ha il più noto rappresentante in Don Raimondo di Sangro, duca di Torremaggiore e principe di Sansevero, tra i massimi scienziati napoletani, indagatore ostinato ed elegante dei più diversi segreti della natura. Le sue scoperte spaziano dalla tipografia simultanea a più colori (irrealizzabile con le cognizioni dell'epoca) alla balistica, alle proprietà dei metalli, alla decifrazione di linguaggi esoterici usati degli Indios del Perù, a preparati che indurivano le materie molli metallizzandole e pietrificandole (alcuni marmi esistenti nella sua celebre cappella sono di origine alchemica) o rendevano "a freddo" plastico il ferro e altri metalli.
Grande anatomista, operò una "ricostruzione" delle reti venose del corpo umano con l'aiuto del suo allievo Salerno. Ispiratore delle sculture "esoteriche" della citata cappella, fu Gran Maestro "pentito" della Massoneria napoletana e celò sotto l'aspetto di "chimico-filosofo" la sua vera identità di iniziato ed alchimista.
Raimondo di Sangro divenne principe di Sansevero molto presto, avendo ereditato il titolo, e le notevoli rendite che comportava, direttamente dal nonno Paolo, sesto principe di Sansevero, per la rinuncia al titolo del padre Antonio, vedovo, che dopo una vita alquanto dissoluta aveva rinunciato ai piaceri mondani per vestire l'abito sacerdotale, consentendo così al giovane Raimondo di divenire il settimo principe della casata di Sansevero di Sangro, che ebbe come capostipite e primo principe (1587) Gianfrancesco, "Cecco" di Sangro.
L'antichissima stirpe dei conti dei Marsi e di Sangro, vantava una discendenza borgognona dallo stesso Carlo Magno; infatti lo stemma dei di Sangro è lo stemma dei discendenti dei duchi di Borgogna, che fondevano le stirpi carolingia, longobarda e normanna. Legatissima al potente Ordine Benedettino, la Casa di Sangro vanterà, oltre ad abati ed altissimi prelati, anche i santi Oderisio, Bernardo e Rosalia. Legati da vincoli di parentela con la potente casata furono quattro pontefici: Innocenzo III (1198-1216), Gregorio IX (1227-1241), che istituì la famigerata Santa Inquisizione contro l'ammissione della quale nel regno di Carlo di Borbone si battè proprio il lontano discendente Raimondo di Sangro, Paolo IV Carafa (1555-1559) e Benedetto XIII (1724-1730). Proprio attraverso S. Bernardo la Casa si legò all'Ordine Templare e ciò ci interessa per quanto riguarda il cammino iniziatico celato nella cappella di famiglia, quella Pietà dei Sangro di Sansevero, capolavoro dell'ultimo barocco napoletano, voluta dal principe che rinnovò una precedente cappella come tempio di famiglia, chiamando a Napoli gli scultori Queirolo e Corradini accanto ai napoletani Sammartino, Celebrano, Persico e i pittori F. M. Russo e C. Amalfi. Artisti che si limitarono ad eseguire la particolare iconografia ideata dal principe, che fornì anche marmi e colori "alchemici". Scrive Gennaro Aspreno Galante, fonte assolutamente attendibile nel 1872 : " ... egli costruì il cornicione ed i capitelli dei pilastri con un mastice da lui formato che parea madreperla...". Le bellissime sculture della cappella Sansevero, che ornano i sepolcri degli antenati, soprattutto dei genitori del principe, sono perfette espressioni di una simbologia massonica-templare-rosacrociana di tale pregnanza ed impatto visivo che lasciano, anche nel visitatore profano, l'impronta indelebile di un "messaggio" che se pur non recepisce, "avverte" con forza.
Non tutti sanno che la zona sulla quale sorge il tempio della Pietà dei Sangro faceva parte del quartiere nilense, abitato dagli Alessandrini d'Egitto, dove, nel tempio, si venerava la statua "velata" della dea Iside. La cappella, questo fondamentale "Libro di Pietra" della conoscenza, sorge quindi sul "luogo di forze" scelto dai primi sacerdoti alessandrini custodi della tradizione egizia di Neapolis. Nel suo palazzo "legato" da un passaggio aereo (oggi purtroppo distrutto e dal quale si scendeva nella cappella) il principe volle la sua officina di alchimista-scienziato, dove sperimentò dall'impermeabilizzazione dei tessuti a quel Lume Eterno che avrebbe dovuto per sempre rifulgere nella cripta sotterranea ai piedi del Cristo morto.
Tutta la simbologia del tempio desangriano si ispira all'antica simbologia del Ripa (uno studioso che aveva fissato i canoni simbolici della Fortuna, Fortezza, Sapienza, Fede, Astronomia, Matematica, ecc.. Quasi sempre figure femminili con "oggetti" simbolici come : caducei, cornucopie, fiori, cuori, fiammelle, libri, compassi, genietti, il tutto rigorosamente spiegato nel suo testo usato per secoli dagli illustratori e dagli artisti in genere) con "innovazioni" che l'antico testo iconografico non contemplava come nel caso del Cristo velato.
Purtroppo di quanto era contenuto nella casa del principe di Sansevero (e che si trova minutamente descritto nelle varie edizioni della "Breve Nota di quel che si vede in casa del Principe di Sansevero Raimondo di Sangro" edite tra il 1766 e il 1769 e conservate nella Biblioteca Nazionale di Napoli, delle quali le prime due, del 1766 e del 1767, sono introvabili. La stessa famiglia del principe impaurita dalla censura papale e della "imposta" abiura del principe che consegnò alcuni elenchi di "fratelli" al pontefice e volendo far placare il gran rumore che si era fatto intorno a questa "abiura" che fece temere anche la vendetta di massoni ritenutisi traditi e abbandonati dallo stesso Gran Maestro, distrussero tutto quanto potesse collegare la memoria di Raimondo al mondo occulto. Ne fecero le spese tutte quelle realizzazioni scientifiche che avrebbero potuto di molto affrettare la scoperta di molti ritrovati odierni già ottenuti alchemicamente dal Sansevero. resta la inquietante testimonianza delle sue "macchine" anatomiche conservate dal principe in un'apposita stanza del suo palazzo dall'indicante nome di "appartamento della fenice" ed oggi in quella cripta ovale, che don Raimondo aveva prevista imitante una grotta naturale, necessaria per la meditazione degli apprendisti e poggiante su terra battuta, senza pavimentazione, per non impedire quelle vibrazioni naturali provenienti dal "luogo" isiaco sottostante e sorretta da otto ( numero fondamentale della ritualità templare che si ripete spesso nell'armonia "numerica" della cappella stessa) pilastri che dovevano definire il posto delle sepolture degli avi intorno al "mistero Magistrale" del Cristo velato. Queste due preparazioni sono un vero e proprio "testo" medico-anatomico, costruite su due scheletri (maschile e femminile) strutturando organi "induriti" da preparati distillati dal Maestro con "ricostruzioni" di sostegno ottenute e colorate con materiali "alchemici" sempre provenienti dall'officina del Sansevero.
Ancora un ultimo accenno allo scomparso passaggio che il principe aveva voluto per discendere dal palazzo alla cappella, e che presentava sui due lati un orologio dotato di un particolare impianto di carillon a campane ospitato nel tempietto rituale (che ancora si trova in alcune, interessanti, costruzioni antiche), particolare "faro" per indicare "a chi aveva occhi ed orecchie" il sito iniziatico. Il tempietto era ottagonale ed otto erano le colonne che ne reggevano la cupoletta; il mirabile meccanismo ideato dal principe, che vi era nascosto, permetteva di eseguire qualsiasi motivo percuotendo col pugno una serie di grossi tasti rotondi che corrispondevano ai vari suoni delle campane. Anche questa meraviglia meccanica del genio creativo "minore" del principe fu abbattuta dai famigliari dopo la sua morte per far sedimentare l'imbarazzante ricordo della fama stregonesca del parente "grande iniziato".









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La leggenda del noce
[SM=x557409]

Convinto di una derivazione da rituali longobardi Pietro Piperno , protomedico beneventano e autore del celebre libro Della superstiziosa noce di Benevento, del 1639, rifacimento della versione latina dal titolo De nuce maga beneventana.


[SM=x557497]


Pietro Piperno

Piperno nel suo testo fa risalire l’origine delle streghe beneventane al tempo dei Longobardi e precisamente all’epoca del duca Romualdo . Secondo quanto racconta il Piperno , che a sua volta desume le notizie da una legenda di San Barbato , i Longobardi adoravano una vipera d’oro e celebravano degli strani rituali intorno ad un albero.

Durante l’assedio dell’imperatore d’Oriente, Costante, nel 663, il duca Romualdo, che stava per soccombere, accettò l’invito del vescovo di Benevento, Barbato, ad allontanarsi dall’eresia per abbracciare la vera fede cristiana. In cambio di ciò Dio permise al duca longobardo di conservare il suo regno e di sconfiggere i bizantini.

Sempre secondo la leggenda di San Barbato, questi fece sradicare l’albero di noce intorno al quale i Longobardi tenevano le loro feste e proibì l’adorazione della vipera d’oro grazie alla collaborazione della duchessa Teodorada .

La preoccupazione di Piperno è quella di dimostrare l’infondatezza della diceria che Benevento è città delle streghe. Infatti, il noce dei raduni longobardi, infestato di demoni, fu sradicato dal santo vescovo. Purtroppo, però, sia relazioni di dotti inquisitori, sia le testimonianze rese dalle streghe, facevano pensare che il mitico noce esistesse ancora e qualcuno diceva addirittura che era rinato, nello stesso posto da cui era stato estirpato per virtù diabolica.
Lo stesso Piperno localizza in una piantina, acclusa al testo italiano dell'opera, sia il simulacro della vipera longobarda, sia il noce.

Egli puntualizza che il noce, rinato sul medesimo luogo di quello sradicato da San Barbato, si trova a circa due miglia dalla città, non distante dalla riva meridionale del fiume Sabato , nella proprietà del nobile Francesco di Gennaro. Su questo luogo il patrizio beneventano Ottavio Bilotta fece porre un'iscrizione che ricordasse l'opera di San Barbato. Il Piperno però aggiunge di non essere certo se fosse proprio questo il famoso noce.

[SM=g7220]


L’albero di noce



Vicino alla città di Benevento

Vi sono due fiumi molto rinomati

Uno Sabato , l’altro Calor del vento;

Si dicono locali indemoniati,

...................................................

Un gran noce di grandezza immensa

Germogliava d’estate e pur d’inverno;

Sotto di questa si tenea gran mensa

Da Streghe, Stregoni e diavoli d’inferno.



Così suona l’inizio di un poemetto popolare ottocentesco edito a Napoli e intitolato “Storia della famosa noce di Benevento”, raccolto da Giuseppe Cocchiara , che al noce e alle streghe dedica un intero capitolo del suo Il paese di cuccagna.

La fama della città, luogo del convegno di streghe , è molto antica. Se ne trovano echi in un sonetto del Fiore, poemetto allegorico del 1200, il cui protagonista dice di chiamarsi Ser Durante. Molti pensano che questo nome adombri lo stesso Dante Alighieri .

La trama è semplice: Ser Durante, l’amante, cerca di cogliere un fiore, simbolo del perfetto amore, da uno splendido giardino, per farne omaggio alla sua amata, Madonna Bellaccoglienza. Egli si è cavallerescamente messo al suo servizio ed ella sembra accettare la sua corte. Pare giunto il momento di cogliere il fiore che è quasi sul punto di sbocciare, quando interviene lo Schifo (cioè il pudore) ad impedirglielo.

[SM=x557330]




(RICERCA WEB)
[SM=x557445]
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Sonetto 203: L’amante e lo Schifo.



Quand’i’ vidi l’offerta che facea,

del fatto mi credett’ esser certano1 :

allor sì volli al fior porre la mano,

che molto ringrassato2 mi parea.



Lo Schifo sopra me forte correa

dicendo: “Tra’ t’addietro3 , mal villano

che, se m’aiuti Iddio e San Germano,

i’ non son or quel ch’i’ esser solea.



El diavol sì ti ci ha ora menato

se mi trovasti a l’altra volta lento

or sie certan ch’i’ ti parrò cambiato.



Me’ ti verria4 che fossi a Benivento”.

Allora al capezzal5 m’ebbe pigliato,

e domandò chi era mi’ guarento6 .

-./\/.-./\/.-./\/.-./\/.-./\/.
1 Certo

2 Più grande

3 Fatti indietro

4 Sarebbe meglio

5 Al collo

6 Garante

-./\/.-./\/.-./\/.-./\/.-./\/.


Alcuni dicono che il nome della città di Benevento, è usato solo per ragioni di rima, ma in verità l’autore aveva molte possibilità di scelta. Invece, è evidente la connessione tra il diavolo e Benevento.

[SM=x557322] Lo Schifo infatti rimprovera l’amante per essere entrato nel giardino, dicendogli che è stato portato lì dal diavolo, sarebbe stato meglio che il diavolo l’avesse portato a Benevento, luogo più consono ai trasporti diabolici. C’è già, nel sonetto, l’idea del volo diabolico associato alla nostra città. È soprattutto in epoca moderna, però, che si comincia a parlare del noce .

[SM=x557409]E: Non si trattava di un noce qualsiasi, ma di un albero particolare; addirittura secondo le testimonianze di alcune streghe (o ritenute tali), sempreverde. Esso sorgeva in un luogo detto “ripa delle janare”, lungo il fiume Sabato , dove tali donne si bagnavano.

Dove fosse esattamente la ripa delle janare non è dato sapere. Sul lato ovest delle mura di Benevento, che era lambito dal fiume Sabato, si trovava una torre, detta Pagana, sulla quale fu edificata una cappella, alla sommità di due rampe di scale affrontate, dedicata a San Nicola di Mira, che avrebbe operato straordinari miracoli.. L’anonimo autore dell’Adventus Sancti Nycolai in Beneventum, testo propagandistico redatto nel 1090, descrive il luogo prossimo alla Torre Pagana dove “…aquarum abundantia sit “ e “arborum amenitas”. Cfr.Lepore, C. e Valli, R. L’Adventus di San Nicola in Benevento, in Studi Beneventani, n.7, 1998
(preso dal web)

[Modificato da ariadipoesia 21/10/2004 10.55]

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le janare
[SM=x557409]E:
Già ai tempi di Omero si credeva che certe donne, da mezzanotte fino alle tre del mattino, volassero per le campagne, si intrufolassero nelle case e tormentassero i vivi.
I cani alla catena ne erano spaventatissimi: prima abbaiavano violentemente poi si rintanavano nei nascondigli delle case e delle cucce quando quelle giungevano nelle vicinanze. Altro segno della loro presenza era considerato il canto della civetta.
Si credeva che queste infernali creature possedessero la chiave delle arti magiche: cattive, invidiose e malvagie sfogavano nella notte il risentimento per quel potere che non gli si riconosceva durante il giorno.
Nel culto italico, le due divinità greche di Artemide e di Ecate Trimorfa si fusero in una sola divinità per cui Ecate, figlia della notte, fu identificata con Artemide (dea della femminilità opposta alla mascolinità), con Persefone (dea dei morti e regina dell'ade) e con Selene ( dea della luna e della lunarità) Per questo Ecate fu raffigurata con forme triplici: solitamente tre corpi femminili accostati di schiena. Una figura davvero inquietante che sopravvive ancora oggi nella coscienza popolare con caratteristiche pressoché immutate.

[SM=x557409]E: Tutte le leggendarie figure della notte, ma soprattutto quella della janara sono riconducibili ad Ecate-Diana.
Secondo la tradizione le janare discendono dalle streghe e sono esse stesse delle streghe.
Le streghe si adunavano in numerosa compagnia, specie nelle ore notturne, nei pressi di alberi dove eseguivano il gioco di Diana, perché gli antichi ritenevano che a capo di queste riunioni vi fosse la dea Diana protettrice dei boschi e delle selve.
Queste assemblee notturne furono chiamate Sabba perchè si svolgevano per lo più nella notte del Sabato.
Col passare del tempo le streghe si orientarono verso un'attività più diabolica e criminale che seminava paura ed orrore.
A questi nuovi incontri partecipavano spiriti e diavoli con i quali spesso le streghe si accoppiavano dando vita alle malefiche Janare.
[SM=x557408] In accordo con il diavolo, girano di notte e si introducono nelle case come se fossero vento, posseggono premendo sulla pancia ed impedendo di respirare.
Se si prova ad urlare, a chiamare aiuto, nessuno può sentire perché la voce non esce.
Si dice che esse siano nate la notte del 24 dicembre e che maltrattano soprattutto i bambini e i malati facendo loro del male.
A volte prendono dei cavalli dalle stalle, li fanno correre per moltissimi chilometri e la mattina i contadini trovano i cavalli sudati e con tantissime treccine.
Vari e originalissimi sono i rimedi da adottare per difendersi o riconoscere tali persone.
:SMILE29: Se si riesce a vedere quest'inquietante creatura durante la notte bisogna dirle: Vieni per sale; e lei, il giorno dopo, non può fare a meno di venire per cui la prima persona che l'indomani verrà a chiedere del sale, sarà la Janara.
:SMILE29: Un tipo di rimedio è quello di mettere scope, spazzole dietro la porta in modo che queste donne per contare i fili fanno mattina e non entrono in casa.

Legato alla tradizione delle janare il racconto di Cesaria, una bella fanciulla che di nascosto era una janara, amata da Ugo Villalumo, poi scoperta mentre si ungeva con grasso di cadaveri, e lanciatasi fuori dal Castello si sentì ululare per un mese. [SM=x557409]E:


preso dalweb

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Palazzo Donn'Anna
Palazzo Donn'Anna è un grosso palazzo grigio che si erge nel mare di Posillipo.
Non è diroccato, ma non è stato mai finito, le sue finestre alte, larghe, senza vetri, rassomigliano ad occhi senz'anima.
Di notte il palazzo diventa nero e cupo e sotto le sue volte s'ode solo il fragore del mare.
Tanti anni fa, invece, da quelle finestre splendevano le vivide luci di una festa, attorno al palazzo erano ormeggiate tante barchette adorne di velluti e di lampioncini colorati. Tutta la nobiltà spagnola e napoletana accorreva ad una delle magnifiche feste che, l'altera Donna Anna Carafa, moglie del duca di Medina Coeli, dava nel suo palazzo.
Nelle sale andavano e venivano i servi, i paggi dai colori rosa e grigio, i maggiordomi; giungevano continuamente bellissime signore dagli strascichi di broccato e riccamente ingioiellate, arrivavano accompagnate dai mariti o dai fratelli, qualcuna, più audace, arrivava con l'amante.
Sulla soglia aspettava i suoi ospiti Donna Anna di Medina Coeli nel suo ricchissimo abito rosso tessuto in lamine d'argento. Era sprezzante ed orgogliosa, godeva senza fine nel ricevere tutti quegli omaggi, tutte le adulazioni. Era lei la più ricca, la più nobile, la più potente, rispettata e temuta.
In fondo al grande salone era montato un teatrino per lo spettacolo. Tutta quella eletta schiera d'invitati doveva assistere prima alla rappresentazione di una commedia, poi ad una danza moresca ed infine avrebbero avuto inizio le danze che si sarebbero protratte fino all'alba. La curiosità era data dal fatto che, secondo la moda francese in voga in quei tempi, gli attori sarebbero stati dei nobili, tra i quali vi era Donna Mercede de las Torres, nipote spagnola della duchessa.
Donna Mercede era bella, giovane, aveva grandi occhi, neri, come i suoi lunghi capelli. Rappresentava la parte di una schiava innamorata del suo padrone, fedele fino alla morte avvenuta per salvare la vita del suo amato.
La fanciulla recitò con trasporto così come Gaetano di Casapesenna che interpretava la parte del cavaliere, anzi quest'ultimo fu così veritiero nella sua recitazione che, quando nell'ultima scena doveva baciare par l'ultima volta il suo sfortunato amore lo fece con tale slancio che la sala intera scoppiò in applausi.
Tutti applaudirono, tranne Donn'Anna, che impallidiva mortalmente e si mordeva le labbra per la gelosia.
Gaetano di Casapesenna era stato, infatti, l'amante di Donn'Anna.
Nei giorni che seguirono le due donne si ingiuriarono più volte violentemente a causa della gelosia di Donn'Anna e del furore giovanile di Donna Mercede.
Un giorno Donna Mercede scomparve, si diceva che fosse stata presa da improvvisa vocazione religiosa e si fosse chiusa in convento.
Gaetano di Casapesenna la cercò invano in Italia, Francia, Spagna ed Ungheria, invano pregò, supplicò e pianse ma non la rivide mai più fino a che morì, giovane, in battaglia come si conviene ad un cavaliere.
A palazzo seguirono altre feste ed altri omaggi alla potente duchessa che, però, sedeva sul suo trono con l'anima avvelenata dal fiele e col suo cuore arido e solitario.

Tratto da "Leggende napoletane" di Matilde Serao

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Donnalbina, Donna Romita, Donna Regina
Donnalbina, Donna Romita e Donna Regina erano le tre figlie del barone Toraldo, nobile del Sedile di Nilo. La madre, donna Gaetana Scauro, di nobilissima origine, era morta molto giovane e il barone, pur rammaricandosi molto per l'estinzione del proprio nome, non riprese moglie. Ottenne come speciale favore, dal re Roberto d'Angiò, che la sua figlia maggiore, Donna Regina, potesse, sposandosi, conservare il suo nome di famiglia e trasmetterlo ai propri figli. Il barone morì nel 1320 quando Donna Regina aveva diciannove anni, Donna Albina diciassette e Donna Romita quindici.
La maggiore era di una bellezza straordinaria, aveva i capelli lunghi e bruni come gli occhi, seri e pensosi, il viso diafano e bellissime labbra molto poco inclini al sorriso, però, era, infatti una personalità austera, con un fortissimo senso del dovere, molto conscia ed orgogliosa del nome che portava. A volte si sorprendeva a desiderare qualche svago, qualche dolcezza, ma subito si inginocchiava a pregare e a leggere le storie della famiglia ridiventando l'inflessibile giovinetta che tutti conoscevano.
Donnalbina, la seconda figlia, detta così dall'eccezionale bianchezza del volto, era una fanciulla amabile, sorridente, bionda con gli occhi azzurri, slanciata e gentile. Era la dolcezza di casa Toraldo, era lei che dirigeva i lavori delle donne sul broccato d'oro, sugli arazzi istoriati, andando da un telaio all'altro, consigliando e lavorando anch'essa. Era lei che si occupava delle elemosine facendo in modo che ognuno potesse ricevere qualcosa e che portava alla sorella maggiore le suppliche dei poveri, degli infermi, di chiunque chiedesse una grazia, un soccorso.
Si doleva molto per il cuore freddo della sorella maggiore e si doleva per la minore.
Perchè Donna Romita era una singolare giovinetta, mezzo donna e mezzo bambina. Aveva i capelli biondo scuro corti e ricci, il viso bruno come abbronzato, begli occhi verde smeraldo, il fisico scarno di forme, i moti bruschi ed era sempre irrequieta. Il suo carattere cambiava spesso passando dalla più totale indifferenza alla più ardente vivacità, spesso si isolava a pensare, forse a sua madre cui avevano detto rassomigliasse.
Comunque la vita scorreva tranquilla e regolare nel freddo palazzo fino a quando re Roberto scrisse personalmente a Donna Regina dicendole di averle destinato in sposo Don Filippo Capece, cavaliere della corte napoletana.
Un giorno mentre Donna Regina teneva tra le mani un libro di preghiere senza, però, leggerlo, le si rivolse supplichevole la sorella Donna Albina parlandole della sua preoccupazione per la sorellina più piccola la quale soffriva terribilmente per le prime pene d'amore. Regina, scandalizzata e furibonda pretese di conoscere il nome dell'uomo e, quando Albina, tremante ed appassionata le confessò quello del cavaliere Don Filippo, ella comprese con disperazione che anche Albina lo amava.
Nella fredda cappella di famiglia Donna Romita prega con passione ardente la Madonna perchè le faccia dimenticare questo amore senza speranza e mentre piange sconsolata si accorge che anche la sorella Albina è lì presente per lo stesso motivo. Nello stesso momento Regina è sola nella sua stanza, non piange, non prega, è come pietrificata dal dolore.
Arriva la Pasqua e le due sorelle minori si presentano a Regina vestite molto semplicemente per implorare il suo perdono e per chiederle di dare il consenso a che si possano chiudere in convento. Regina allora fa sapere di aver preso da tempo la stessa decisione in quanto resasi conto che Don Filippo la odia.
Donna Regina si alzò, prese lo scettro d'ebano, borchiato d'oro e lo spezzò in due pezzi e, rivolgendosi al ritratto dell'ultimo barone Toraldo gli disse, inchinandosi: - Salute, padre mio, la vostra nobile casa è morta.-
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La leggenda di Castel dell'Ovo
Il discorso sull'esoterismo a Napoli si fa molto interessante nel Medioevo normanno e angioino, quando si sviluppò, e vi trovò enorme credito, la teoria di Virgilio il Mago. I rapporti del grande poeta latino con Neapolis sono moltissimi; la città che ancora ne onora la tomba nel parco di Fuorigrotta che porta il suo nome, presenta due diverse direttrici "d'amore": quella colta che riguarda la sua prestigiosa opera letteraria, e quella popolare che lo venera quale Mago- Salvatore della città stessa; il "Liberatore" da varie iatture come, ad esempio, invasione di insetti o serpenti, con l'ausilio di particolari "incantesimi". La testimonianza più affascinante di questa "credenza" resta il nome di "Castel dell'Ovo" alla turrita struttura dell'isolotto di S. Salvatore, la greca Megaride, unita in seguito alla costa (artificialmente) dal Borgo Marinaro. In effetti l'origine del nome resta alquanto misteriosa se non si analizza bene il "nome" stesso. Per prima cosa gli studiosi di alchimia sanno che il termine uovo o meglio uovo filosofico è il nome "esoterico" dell' Athanor, il piccolo forno chiuso, il matraccio di metallo o di un particolare vetro nel quale avveniva la lenta trasmutazione degli elementi primari - zolfo e mercurio - in metallo "prezioso", L'oro alchemico. Operazione iniziatica che definiva, in effetti, una profonda mutazione dello spirito e dell'intelligenza dell'operatore. A Napoli, nel periodo medioevale, fiorisce una grande scuola ermetica che si occupa di alchimia. I processi di "liquefazione", "soluzione" e "calcinazione" sono favoriti da una particolare terra vulcanica offerta dal Vesuvio mentre la distillazione dell'acqua marina era ritenuta l'unico surrogato alla rugiada raccolta nella notte - l'acqua degli alchimisti - che doveva possedere un grado altissimo di "purezza cosmica". Megaride divenne presto, già nell'età classica, rifugio di eremiti che occuparono le piccole grotte naturali ed i ruderi delle costruzioni romane della grande domus luculliana che dalle pendici di Pizzofalcone giungeva all'isolotto di Megaride. I monaci Basiliani riutilizzarono poi le possenti colonne romane per ornare la sala del loro "cenobio", come ancora si può notare visitando Castel dell'Ovo. E' noto che molte ricerche alchemiche avvenivano celate ai più proprio nel segreto di alcuni monasteri medievali ed è confermata la presenza sull'isolotto di monaci alchimisti. In un antico documento, si legge di un antico amanuense che aveva speso tutta la sua esistenza "... nello studio e nella trascrizione di Virgilio...". E le continue e appassionate ricerche operate da studiosi hanno testimoniato più volte la profonda "cultura virgiliana" della classe colta e religiosa napoletana tra il Medioevo angioino e il Rinascimento aragonese. Infatti si è già accennato a quell'amore particolare dei napoletani per il poeta mantovano.
Virgilio, narrano molte cronache medioevali napoletane, entrò nel castello di Megaride e vi pose un uovo chiuso in una gabbietta che fece murare in una nicchia delle fondamenta, avvisando che alla rottura dell'uovo tutta la città sarebbe crollata. Altre versioni parlano di un uovo sigillato in una "caraffa" di cristallo sempre murata in un luogo segreto del castello con la stessa raccomandazione. Così nasce il nome di "Castel dell'Ovo" che l'isolotto ha sempre conservato, e lo si evince sia dagli scritti antichi che da una radicata tradizione orale. L'ipotesi che ne deriva è questa: Virgilio apprende il metodo di "distillazione" da un seguace dei misteri orfici ancora operante nella campagna napoletana e si procura un recipiente adatto per distillare ed operare nel segreto di "laboratori" ospitati in ville patrizie di nobili che, ottemperando al volere di Mecenate Ottaviano, renderanno al Mantovano del tutto sereno il soggiorno napoletano. Virgilio, che ha studiato proprio a Napoli alla scuola del epicureo Sirone ed ha nel cuore Esiodo e Lucrezio, si addentra sempre di più nella conoscenza segreta della natura iniziandosi ai culti di Cerere e Proserpina allora vivissimi a Neapolis. Ma allora Virgilio è veramente un "mago" pre-alchimi-
sta? Perché Dante Alighieri, il più "iniziato" dei nostri poeti, affiliato per sua stessa ammissione alla setta dei Fedeli d'Amore a Firenze, iscritto alla corporazione de' medici e speziali che ha lasciato il più eccelso ed inquietante libro "esoterico" nella immortale Commedia, ha voluto come "guida" proprio Virgilio?
Di certo Napoli l'amò moltissimo, e lo ritenne prima di S. Gennaro protettore a tutto tondo. Tant'è che morto a Brindisi nel 19 a.C. onora da sempre la "tomba" napoletana.
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Niccolò Pesce
Niccolò era un bambino che amava starsene sempre in mare, facendo arrabbiare sua madre, la quale un giorno nel calore dello sdegno gli gettò la maledizione, che "potesse diventar pesce", e da pesce o quasi pesce egli visse da allora, capace di trattenersi ore e giorni immerso nelle acque, come nel suo proprio elemento, senza bisogno di risalire a galla per respirare.
E a percorrere in mare lunghe distanze rapidamente Niccolò Pesce usava l’astuzia di lasciarsi ingoiare da taluno degli enormi pesci che gli erano familiari e viaggiare nel loro corpo, finché, giunto dove bramava, con un coltellaccio che aveva sempre seco, tagliava il ventre del pesce e usciva libero nelle acque, a compiere le sue indagini.
Una volta il re fu preso da desiderio di sapere come fosse fatto il fondo del mare; e Niccolò Pesce, dopo lunga dimora, tornò a dirgli che era tutto formato di giardini di corallo, che l’arena era cosparsa di pietre preziose, che qua e là s’incontravano mucchi di tesori, di armi, di scheletri umani, di navi sommerse. Un’altra volta discese nelle misteriose grotte di Castel dell’Ovo, e ne riportò manate di gemme.
Ancora il re gli commise d’indagare come l’isola di Sicilia si regga sul mare, e Niccolò Pesce gli riferì che poggiava sopra tre enormi colonne, l’una delle quali era spezzata.
Ma, finalmente, un giorno venne al re voglia di conoscere a che punto veramente colui potesse giungere della profondità del mare, e gli ordinò di andare a ripigliare una palla di cannone, che sarebbe stata scagliata nel faro di Messina.
Niccolò Pesce protestò che avrebbe obbedito, se il re insistesse, ma che sentiva che non sarebbe mai più tornato a terra. Il re insistette.
Niccolò salto subita nelle onde; corse corse senza posa dietro la palla che s’affondava veloce; la raggiunse in quella furia d’inseguimento e la raccolse nelle sue mani.
Ma ecco che, alzando il capo, vide sopra se le acque tese e ferme.
Lo coprivano come un marmo sepolcrale. S’accorse di trovarsi in uno spazio senz’acqua, vuoto, silenzioso. Impossibile riafferrare le onde, impossibile riattaccare il nuoto.
Colà restò chiuso, Colà terminò la sua vita.

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la sirena Partenope
Si narra che la sirena Partenope incantata dalla bellezza del golfo, disteso tra Posillipo ed il Vesuvio, avesse fissato lì la sua dimora. Ogni primavera la bella sirena emergeva dalle acque per salutare le genti felici che popolavano il golfo, allietandole con canti d'amore e di gioia.

Una volta la sua voce fu così melodiosa e soave che tutti gli abitanti ne rimasero affascinati e rapiti: accorsero verso il mare commossi dalla dolcezza del canto e delle parole d'amore che la sirena aveva loro dedicato. Per ringraziarla di un così grande diletto, decisero di offrirle quanto di più prezioso avessero.

Sette fra le più belle fanciulle dei villaggi furono incaricate di consegnare i doni alla bella Partenope: la farina, forza e ricchezza della campagna; la ricotta, omaggio di pastori e pecorelle; le uova, simbolo della vita che sempre si rinnova; il grano tenero, bollito nel latte, a prova dei due regni della natura; l'acqua di fiori d'arancio, perché anche i profumi della terra solevano rendere omaggio; le spezie, in rappresentanza dei popoli più lontani del mondo; infine lo zucchero, per esprimere l'ineffabile dolcezza profusa dal canto di Partenope in cielo, in terra, ed in tutto l'universo.

La sirena, felice per tanti doni, si inabissò per fare ritorno alla sua dimora cristallina e depose le offerte preziose ai piedi degli dei.

Questi, inebriati anche essi dal soavissimo canto, riunirono e mescolarono con arti divine tutti gli ingredienti, trasformandoli nella prima Pastiera che superava in dolcezza il canto della stessa sirena.


Si racconta che Mariateresa D'Austria, consorte del re Ferdinando II° di Borbone, soprannominata dai soldati "la Regina che non sorride mai", cedendo alle insistenze del marito buontempone, famoso per la sua ghiottoneria, accondiscese ad assaggiare una fetta di Pastiera e non poté far a meno di sorridere, compiaciuta alla bonaria canzonatura del Re che sottolineava la sua evidente soddisfazione, nel gustare la specialità napoletana.

Pare che a questo punto il Re esclamasse: "Per far sorridere mia moglie ci voleva la Pastiera, ora dovrò aspettare la prossima Pasqua per vederla sorridere di nuovo".

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22/12/2004 21:21
 
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STORIA DEL PRESEPE NAPOLETANO
Il Presepe Napoletano nasce, come rappresentazione della Natività, nel 1470 per mano dei fratelli Giovanni e Pietro Alemanno. Questo primo Presepe era formato da figure lignee di grandezza quasi naturale, prive di accessori che potessero distrarre dall'importanza dell'evento sacro che rappresentavano, ed erano immagini solenni che invitavano alla religiosità e alla preghiera.
Nel corso del Cinquecento compaiono i primi mutamenti. In un documento notarile del 1532 vi è la descrizione di un presepe, con pastori in terracotta dipinta, realizzato per il nobile Matteo Mastrogiudice da Sorrento. Troviamo i primi accenni di scenografia con qualche paesaggio e, oltre al bue ed all'asinello, sempre affiancati alla Sacra Famiglia, ci sono anche altri animali quale il cane, la capra e le pecore, due pastori, tre angeli.


La struttura del presepe presenta la grotta in primo piano affiancata da pastori in adorazione ed Angeli, quindi il sacro monte con altri pastori accompagnati da greggi ed Angeli in volo che annunciano la buona novella, ed in lontananza il corteo dei Re Magi. Anche il presepe della cattedrale di Matera e quello del duomo di Altamura hanno la stessa disposizione, confermando che quella era la tipologia di struttura diffusa anche nella provincia. Durante tutto il secolo convissero due tipi di pastori : quello in legno e quello in terracotta, che diventarono di dimensioni più piccole, rispetto a quelli quattrocenteschi, verso la fine del secolo.


E' nella la prima metà del 1600 che incomincia a nascere la figura dell'artista che si dedica anche alla creazione di pastori. Michele Perrone fu uno di questi, noto per le sue sculture lignee si dedicò con notevole successo a questa attività, altrettanto bravi furono i suoi fratelli Aniello e Donato. Accanto al legno, nella seconda metà del secolo incominciarono a comparire altre innovazioni, pastori in cartapesta più piccoli rispetto ai precedenti, ed ancora manichini di legno con arti snodabili e vestiti di stoffa. Furono proprio questi manichini di legno snodabili che segnarono la svolta verso il presepe del 700, anche se spesso continuarono a convivere le due tipologie. Il committente è, con queste nuove figure, protagonista e parte attiva, potendo far assumere ai pastori le posizioni che vuole e potendo (in questo modo) arricchire maggiormente la scena come meglio crede. I manichini di legno sono snodabili, alcuni dispongono di un incavo per alloggiarvi la "pettiglia" della testa, altre volte invece la testa è tutt'uno con il corpo, altri ancora , nel caso di figure femminili, sono calvi per poter portare parrucche intercambiabili. Questo sarà, come dicevamo, l'anello di congiunzione con il presepe del 700. La Natività posta nella grata-stalla, l'Annuncio della buona Novella ai pastori dormienti, la Taverna con gli avventori che cenano, sono i tre momenti che domineranno il presepe del 700.





La natività per gran parte del secolo sarà rappresenta a quasi sempre con la Madonna seduta su di un sasso e San Giuseppe in piedi in una grotta-stalla, successivamente, anche grazie alle grandi scoperte archeologiche dei Borbone, le scenografia talune volte diventerà un rudere di tempio pagano; L'annunciazione invece lasciò poche interpretazioni da parte degli architetti presepari; La taverna, invece, fece sbizzarrire non poco, sia gli artisti che i committenti. L'episodio della taverna è da leggersi, molto probabilmente, nell'episodio della mancata ospitalità offerta alla Sacra Famiglia, l'esposizione delle vivande fatta in maniera abbondante nei costumi dell'epoca dove gli avventori erano allettati ad entrare dinnanzi a simili viste, ed inoltre l'esposizione adempiva delle prescrizioni dell'epoca che obbligava gli osti ad esporre le carni fresche. E' in questo secolo che il presepe napoletano raggiunge il suo più alto splendore.La meraviglia delle scene costruite con dovizia e ricchezza di particolari, la plasticità dei volti dei pastori, creavano nei visitatori diletto e meraviglia. Il presepe di questo secolo è un nuova forma di spettacolo dove troviamo spaccati di vita quotidiana che riflettono la cultura dell'epoca, gli storpi e i diseredati rappresentati non senza sarcasmo, l'opulenza dei nobili orientali e delle loro corti a simboleggiare i privilegi dei nobili, l'osteria con l'avventore e l'oste a rappresentare la bonomia del popolo . Il tutto con una ricchezza inaudita attraverso sete e stoffe, gioielli, ori ed argenti che dovevano dimostrare il proprio status socio-economico. Luoghi di queste rappresentazioni non furono solo le chiese ma anche le stanze dei privati, chiaramente più facoltosi, che attiravano un pubblico numeroso e di ogni estrazione sociale. Tra le collezioni private più importanti non si può non ricordare quella del principe Emanuele Pinto, che ricevette perfino la visita della Viceregina austriaca . Di questo presepe il Napoli-Signorelli ci descrive più di altra cosa la magnificità del corteo dei Re Magi. Il principe di Ischitella, fu un grande collezionista di presepi. Ne aveva di ogni materiale e disposti in ogni stanza del suo palazzo, che andavano a sommarsi a quello grande. Nel tempo, però, il grande presepe del principe Pinto non restò l'unico da ammirare nella città. A questo se ne aggiunsero degli altri come quello reale. Tutto ciò, però, non può che indurci alla riflessione che il presepe stava via via perdendo la sua misticità per trasformarsi sempre di più in una rappresentazione profana diretta ad affermare, anch'esso il prestigio della famiglia.
Tra le collezioni private più importanti non si può non ricordare quella del principe Emanuele Pinto, che ricevette perfino la visita della Viceregina austriaca . Di questo presepe il Napoli-Signorelli ci descrive più di altra cosa la magnificità del corteo dei Re Magi. Il principe di Ischitella, fu un grande collezionista di presepi. Ne aveva di ogni materiale e disposti in ogni stanza del suo palazzo, che andavano a sommarsi a quello grande. Nel tempo, però, il grande presepe del principe Pinto non restò l'unico da ammirare nella città. A questo se ne aggiunsero degli altri come quello reale. Tutto ciò, però, non può che indurci alla riflessione che il presepe stava via via perdendo la sua misticità per trasformarsi sempre di più in una rappresentazione profana diretta ad affermare, anch'esso il prestigio della famiglia. Il tutto, però, alla fine del secolo incominciò a finire, infatti le collezioni private incominciarono a smembrarsi, come testimonia il Napoli-Signorelli. Il principe Emanuele Pinto fu costretto ad impegnare i gioielli dei Re Magi e gli ori delle popolane per far fronte ad una momentanea carenza di liquidità. Quando pio finirono anche gli ultimi presepari discepoli dei grandi maestri il presepe napoletano iniziò il suo inesorabile declino, i grandi presepi andarono scomparendo e si predilessero quelli più piccoli, quasi a voler dimostrare che i pastori napoletani, data la loro pregiata fattura, potevano magnificamente esistere senza quelle scene che avevano contribuito a renderli famosi in tutto il mondo.


[Modificato da ariadipoesia 01/09/2008 20:48]
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