Qui il tempo è fresco
solo in istanti speciali, in primavera
quando la famiglia nostra è già dispersa
e con un pacco di ricordi di un pranzo equinoziale nella testa
ben serrati dentro lo stanzino in fondo a destra.
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Altre volte, cioè quando ci riuniamo, ne scorgo sempre un
primo avviso: ritrovo, prendendo l’unica autostrada
quella carcassa canina che anno dopo anno
sparisce via via lasciando solamente
quello che conta: l’ombra. E non appena
questa parentesi è detta sono
sotto casa a Potenza, sulla strada che porta alla salita.
E fa troppo caldo, come sempre
Ed è sconosciuto ogni respiro nell’angolo
E tutto pulsa di violenza immaginata
Che trascino anche qui ora che pranzo
in barba alle mie- nostre ragionevoli regole
di solitudine e fede nascostamente
rinnegata, e scampoli
di depressione ben raccolta
nei movimenti della forchetta sulle pieghe
immaginarie della tovaglia.
Siamo per davvero una famiglia di poeti. Da sempre decaduti, non decadenti, temo.
Poi il pranzo finisce.
Con il rimpianto di non aver detto o rinfacciato abbastanza.
Si sono perse molte occasioni d’odio e
d’amore.
Si è finito per volersi bene ancora di più
e salutarsi con un sorriso sofferto
per questo sincero come non mai.
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Ciò, a mio avviso, è cosa maggiormente si avvicina
al concetto di sordo abominio
innaturalità dei vincoli familiari.