Stellar Blade Un'esclusiva PS5 che sta facendo discutere per l'eccessiva bellezza della protagonista. Vieni a parlarne su Award & Oscar!

Scrivere Scrivere Forum di scrittura estemporanea e tanto di più.

Dante Alighieri

  • Messaggi
  • OFFLINE
    ariadipoesia
    Post: 405
    Registrato il: 30/01/2003
    Sesso: Femminile
    Fabbricante di idee
    00 12/10/2004 09:12


    (QUESTA BALLATA è TRATTA DALLE "RIME".)

    Per una ghirlandetta

    1 Per una ghirlandetta
    ch'io vidi, mi farà
    sospirare ogni fiore.

    2 I' vidi a voi, donna, portare
    ghirlandetta di fior gentile,
    e sovr'a lei vidi volare
    un angiolel d'amore umile;
    e 'n suo cantar sottile
    dicea: "Chi mi vedrà
    lauderà 'l mio signore".

    3 Se io sarò là dove sia
    Fioretta mia bella a sentire,
    allor dirò la donna mia
    che port'in testa i miei sospire.
    Ma per crescer disire
    mia donna verrà
    coronata da Amore.

    4 Le parolette mie novelle,
    che di fiori fatto han ballata,
    per leggiadria ci hanno tolt'elle
    una vesta ch'altrui fu data:
    però siate pregata,
    qual uom la canterà,
    che li facciate onore.



    Angela_______ari@dipoesi@


    __Paginedivetro_BLOG__ di ari@dipoesi@

    pagine di vetro




  • OFFLINE
    ariadipoesia
    Post: 533
    Registrato il: 30/01/2003
    Sesso: Femminile
    Fabbricante di idee
    00 19/10/2004 15:55
    Inferno: Canto XVII
    Inferno: Canto XVII
    [Canto XVII, nel quale si tratta del discendimento nel luogo detto Malebolge, che è l'ottavo cerchio de l'inferno; ancora fa proemio alquanto di quelli che sono nel settimo circulo; e quivi si truova il demonio Gerione sopra '1 quale passaro il fiume; e quivi parlò Dante ad alcuni prestatori e usurai del settimo cerchio.]

    «Ecco la fiera con la coda aguzza,
    che passa i monti e rompe i muri e l'armi!
    Ecco colei che tutto 'l mondo appuzza!».

    Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
    e accennolle che venisse a proda,
    vicino al fin d'i passeggiati marmi.

    E quella sozza imagine di froda
    sen venne, e arrivò la testa e 'l busto,
    ma 'n su la riva non trasse la coda.

    La faccia sua era faccia d'uom giusto,
    tanto benigna avea di fuor la pelle,
    e d'un serpente tutto l'altro fusto;

    due branche avea pilose insin l'ascelle;
    lo dosso e 'l petto e ambedue le coste
    dipinti avea di nodi e di rotelle.

    Con più color, sommesse e sovraposte
    non fer mai drappi Tartari né Turchi,
    né fuor tai tele per Aragne imposte.

    Come talvolta stanno a riva i burchi,
    che parte sono in acqua e parte in terra,
    e come là tra li Tedeschi lurchi

    lo bivero s'assetta a far sua guerra,
    così la fiera pessima si stava
    su l'orlo ch'è di pietra e 'l sabbion serra.

    Nel vano tutta sua coda guizzava,
    torcendo in sù la venenosa forca
    ch'a guisa di scorpion la punta armava.

    Lo duca disse: «Or convien che si torca
    la nostra via un poco insino a quella
    bestia malvagia che colà si corca».

    Però scendemmo a la destra mammella,
    e diece passi femmo in su lo stremo,
    per ben cessar la rena e la fiammella.

    E quando noi a lei venuti semo,
    poco più oltre veggio in su la rena
    gente seder propinqua al loco scemo.

    Quivi 'l maestro «Acciò che tutta piena
    esperïenza d'esto giron porti»,
    mi disse, «va, e vedi la lor mena.

    Li tuoi ragionamenti sian là corti;
    mentre che torni, parlerò con questa,
    che ne conceda i suoi omeri forti».

    Così ancor su per la strema testa
    di quel settimo cerchio tutto solo
    andai, dove sedea la gente mesta.

    Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
    di qua, di là soccorrien con le mani
    quando a' vapori, e quando al caldo suolo:

    non altrimenti fan di state i cani
    or col ceffo or col piè, quando son morsi
    o da pulci o da mosche o da tafani.

    Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
    ne' quali 'l doloroso foco casca,
    non ne conobbi alcun; ma io m'accorsi

    che dal collo a ciascun pendea una tasca
    ch'avea certo colore e certo segno,
    e quindi par che 'l loro occhio si pasca.

    E com' io riguardando tra lor vegno,
    in una borsa gialla vidi azzurro
    che d'un leone avea faccia e contegno.

    Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
    vidine un'altra come sangue rossa,
    mostrando un'oca bianca più che burro.

    E un che d'una scrofa azzurra e grossa
    segnato avea lo suo sacchetto bianco,
    mi disse: «Che fai tu in questa fossa?

    Or te ne va; e perché se' vivo anco,
    sappi che 'l mio vicin Vitalïano
    sederà qui dal mio sinistro fianco.

    Con questi Fiorentin son padoano:
    spesse fïate mi 'ntronan li orecchi
    gridando: "Vegna 'l cavalier sovrano,

    che recherà la tasca con tre becchi!"».
    Qui distorse la bocca e di fuor trasse
    la lingua, come bue che 'l naso lecchi.

    E io, temendo no 'l più star crucciasse
    lui che di poco star m'avea 'mmonito,
    torna'mi in dietro da l'anime lasse.

    Trova' il duca mio ch'era salito
    già su la groppa del fiero animale,
    e disse a me: «Or sie forte e ardito.

    Omai si scende per sì fatte scale;
    monta dinanzi, ch'i' voglio esser mezzo,
    sì che la coda non possa far male».

    Qual è colui che sì presso ha 'l riprezzo
    de la quartana, c'ha già l'unghie smorte,
    e triema tutto pur guardando 'l rezzo,

    tal divenn' io a le parole porte;
    ma vergogna mi fé le sue minacce,
    che innanzi a buon segnor fa servo forte.

    I' m'assettai in su quelle spallacce;
    sì volli dir, ma la voce non venne
    com' io credetti: 'Fa che tu m'abbracce'.

    Ma esso, ch'altra volta mi sovvenne
    ad altro forse, tosto ch'i' montai
    con le braccia m'avvinse e mi sostenne;

    e disse: «Gerïon, moviti omai:
    le rote larghe, e lo scender sia poco;
    pensa la nova soma che tu hai».

    Come la navicella esce di loco
    in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
    e poi ch'al tutto si sentì a gioco,

    là 'v' era 'l petto, la coda rivolse,
    e quella tesa, come anguilla, mosse,
    e con le branche l'aere a sé raccolse.

    Maggior paura non credo che fosse
    quando Fetonte abbandonò li freni,
    per che 'l ciel, come pare ancor, si cosse;

    né quando Icaro misero le reni
    sentì spennar per la scaldata cera,
    gridando il padre a lui «Mala via tieni!»,

    che fu la mia, quando vidi ch'i' era
    ne l'aere d'ogne parte, e vidi spenta
    ogne veduta fuor che de la fera.

    Ella sen va notando lenta lenta;
    rota e discende, ma non me n'accorgo
    se non che al viso e di sotto mi venta.

    Io sentia già da la man destra il gorgo
    far sotto noi un orribile scroscio,
    per che con li occhi 'n giù la testa sporgo.

    Allor fu' io più timido a lo stoscio,
    però ch'i' vidi fuochi e senti' pianti;
    ond' io tremando tutto mi raccoscio.

    E vidi poi, ché nol vedea davanti,
    lo scendere e 'l girar per li gran mali
    che s'appressavan da diversi canti.

    Come 'l falcon ch'è stato assai su l'ali,
    che sanza veder logoro o uccello
    fa dire al falconiere «Omè, tu cali!»,

    discende lasso onde si move isnello,
    per cento rote, e da lunge si pone
    dal suo maestro, disdegnoso e fello;

    così ne puose al fondo Gerïone
    al piè al piè de la stagliata rocca,
    e, discarcate le nostre persone,

    si dileguò come da corda cocca.
    Angela_______ari@dipoesi@


    __Paginedivetro_BLOG__ di ari@dipoesi@

    pagine di vetro




  • OFFLINE
    ariadipoesia
    Post: 534
    Registrato il: 30/01/2003
    Sesso: Femminile
    Fabbricante di idee
    00 19/10/2004 16:28
    Re: [Incomincia la Comedia di Dante Alleghieri di Fiorenza]
    [Incomincia la Comedia di Dante Alleghieri di Fiorenza, ne la quale tratta de le pene e punimenti de' vizi e de' meriti e premi de le virtù. Comincia il canto primo de la prima parte la quale si chiama Inferno, nel qual l'auttore fa proemio a tutta l'opera.]

    Nel mezzo del cammin di nostra vita
    mi ritrovai per una selva oscura,
    ché la diritta via era smarrita.

    Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
    esta selva selvaggia e aspra e forte
    che nel pensier rinova la paura!

    Tant' è amara che poco è più morte;
    ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,
    dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.

    Io non so ben ridir com' i' v'intrai,
    tant' era pien di sonno a quel punto
    che la verace via abbandonai.

    Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,
    là dove terminava quella valle
    che m'avea di paura il cor compunto,

    guardai in alto e vidi le sue spalle
    vestite già de' raggi del pianeta
    che mena dritto altrui per ogne calle.

    Allor fu la paura un poco queta,
    che nel lago del cor m'era durata
    la notte ch'i' passai con tanta pieta.

    E come quei che con lena affannata,
    uscito fuor del pelago a la riva,
    si volge a l'acqua perigliosa e guata,

    così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,
    si volse a retro a rimirar lo passo
    che non lasciò già mai persona viva.

    Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso,
    ripresi via per la piaggia diserta,
    sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.

    Ed ecco, quasi al cominciar de l'erta,
    una lonza leggiera e presta molto,
    che di pel macolato era coverta;

    e non mi si partia dinanzi al volto,
    anzi 'mpediva tanto il mio cammino,
    ch'i' fui per ritornar più volte vòlto.

    Temp' era dal principio del mattino,
    e 'l sol montava 'n sù con quelle stelle
    ch'eran con lui quando l'amor divino

    mosse di prima quelle cose belle;
    sì ch'a bene sperar m'era cagione
    di quella fiera a la gaetta pelle

    l'ora del tempo e la dolce stagione;
    ma non sì che paura non mi desse
    la vista che m'apparve d'un leone.

    Questi parea che contra me venisse
    con la test' alta e con rabbiosa fame,
    sì che parea che l'aere ne tremesse.

    Ed una lupa, che di tutte brame
    sembiava carca ne la sua magrezza,
    e molte genti fé già viver grame,

    questa mi porse tanto di gravezza
    con la paura ch'uscia di sua vista,
    ch'io perdei la speranza de l'altezza.

    E qual è quei che volontieri acquista,
    e giugne 'l tempo che perder lo face,
    che 'n tutti suoi pensier piange e s'attrista;

    tal mi fece la bestia sanza pace,
    che, venendomi 'ncontro, a poco a poco
    mi ripigneva là dove 'l sol tace.

    Mentre ch'i' rovinava in basso loco,
    dinanzi a li occhi mi si fu offerto
    chi per lungo silenzio parea fioco.

    Quando vidi costui nel gran diserto,
    «Miserere di me», gridai a lui,
    «qual che tu sii, od ombra od omo certo!».

    Rispuosemi: «Non omo, omo già fui,
    e li parenti miei furon lombardi,
    mantoani per patrïa ambedui.

    Nacqui sub Iulio, ancor che fosse tardi,
    e vissi a Roma sotto 'l buono Augusto
    nel tempo de li dèi falsi e bugiardi.

    Poeta fui, e cantai di quel giusto
    figliuol d'Anchise che venne di Troia,
    poi che 'l superbo Ilïón fu combusto.

    Ma tu perché ritorni a tanta noia?
    perché non sali il dilettoso monte
    ch'è principio e cagion di tutta gioia?».

    «Or se' tu quel Virgilio e quella fonte
    che spandi di parlar sì largo fiume?»,
    rispuos' io lui con vergognosa fronte.

    «O de li altri poeti onore e lume,
    vagliami 'l lungo studio e 'l grande amore
    che m'ha fatto cercar lo tuo volume.

    Tu se' lo mio maestro e 'l mio autore,
    tu se' solo colui da cu' io tolsi
    lo bello stilo che m'ha fatto onore.

    Vedi la bestia per cu' io mi volsi;
    aiutami da lei, famoso saggio,
    ch'ella mi fa tremar le vene e i polsi».

    «A te convien tenere altro vïaggio»,
    rispuose, poi che lagrimar mi vide,
    «se vuo' campar d'esto loco selvaggio;

    ché questa bestia, per la qual tu gride,
    non lascia altrui passar per la sua via,
    ma tanto lo 'mpedisce che l'uccide;

    e ha natura sì malvagia e ria,
    che mai non empie la bramosa voglia,
    e dopo 'l pasto ha più fame che pria.

    Molti son li animali a cui s'ammoglia,
    e più saranno ancora, infin che 'l veltro
    verrà, che la farà morir con doglia.

    Questi non ciberà terra né peltro,
    ma sapïenza, amore e virtute,
    e sua nazion sarà tra feltro e feltro.

    Di quella umile Italia fia salute
    per cui morì la vergine Cammilla,
    Eurialo e Turno e Niso di ferute.

    Questi la caccerà per ogne villa,
    fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno,
    là onde 'nvidia prima dipartilla.

    Ond' io per lo tuo me' penso e discerno
    che tu mi segui, e io sarò tua guida,
    e trarrotti di qui per loco etterno;

    ove udirai le disperate strida,
    vedrai li antichi spiriti dolenti,
    ch'a la seconda morte ciascun grida;

    e vederai color che son contenti
    nel foco, perché speran di venire
    quando che sia a le beate genti.

    A le quai poi se tu vorrai salire,
    anima fia a ciò più di me degna:
    con lei ti lascerò nel mio partire;

    ché quello imperador che là sù regna,
    perch' i' fu' ribellante a la sua legge,
    non vuol che 'n sua città per me si vegna.

    In tutte parti impera e quivi regge;
    quivi è la sua città e l'alto seggio:
    oh felice colui cu' ivi elegge!».

    E io a lui: «Poeta, io ti richeggio
    per quello Dio che tu non conoscesti,
    a ciò ch'io fugga questo male e peggio,

    che tu mi meni là dov' or dicesti,
    sì ch'io veggia la porta di san Pietro
    e color cui tu fai cotanto mesti».

    Allor si mosse, e io li tenni dietro.
    Angela_______ari@dipoesi@


    __Paginedivetro_BLOG__ di ari@dipoesi@

    pagine di vetro




  • OFFLINE
    ariadipoesia
    Post: 535
    Registrato il: 30/01/2003
    Sesso: Femminile
    Fabbricante di idee
    00 19/10/2004 16:30
    Canto secondo de la prima parte ne la quale fa proemio a la prima cantica cioè a la prima parte di questo libro solamente, e in questo canto tratta l'auttore come trovò Virgilio, il quale il fece sicuro del cammino per le tre donne che di lui aveano cura ne la corte del cielo.]

    Lo giorno se n'andava, e l'aere bruno
    toglieva li animai che sono in terra
    da le fatiche loro; e io sol uno

    m'apparecchiava a sostener la guerra
    sì del cammino e sì de la pietate,
    che ritrarrà la mente che non erra.

    O muse, o alto ingegno, or m'aiutate;
    o mente che scrivesti ciò ch'io vidi,
    qui si parrà la tua nobilitate.

    Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
    guarda la mia virtù s'ell' è possente,
    prima ch'a l'alto passo tu mi fidi.

    Tu dici che di Silvïo il parente,
    corruttibile ancora, ad immortale
    secolo andò, e fu sensibilmente.

    Però, se l'avversario d'ogne male
    cortese i fu, pensando l'alto effetto
    ch'uscir dovea di lui, e 'l chi e 'l quale

    non pare indegno ad omo d'intelletto;
    ch'e' fu de l'alma Roma e di suo impero
    ne l'empireo ciel per padre eletto:

    la quale e 'l quale, a voler dir lo vero,
    fu stabilita per lo loco santo
    u' siede il successor del maggior Piero.

    Per quest' andata onde li dai tu vanto,
    intese cose che furon cagione
    di sua vittoria e del papale ammanto.

    Andovvi poi lo Vas d'elezïone,
    per recarne conforto a quella fede
    ch'è principio a la via di salvazione.

    Ma io, perché venirvi? o chi 'l concede?
    Io non Enëa, io non Paulo sono;
    me degno a ciò né io né altri 'l crede.

    Per che, se del venire io m'abbandono,
    temo che la venuta non sia folle.
    Se' savio; intendi me' ch'i' non ragiono».

    E qual è quei che disvuol ciò che volle
    e per novi pensier cangia proposta,
    sì che dal cominciar tutto si tolle,

    tal mi fec' ïo 'n quella oscura costa,
    perché, pensando, consumai la 'mpresa
    che fu nel cominciar cotanto tosta.

    «S'i' ho ben la parola tua intesa»,
    rispuose del magnanimo quell' ombra,
    «l'anima tua è da viltade offesa;

    la qual molte fïate l'omo ingombra
    sì che d'onrata impresa lo rivolve,
    come falso veder bestia quand' ombra.

    Da questa tema acciò che tu ti solve,
    dirotti perch' io venni e quel ch'io 'ntesi
    nel primo punto che di te mi dolve.

    Io era tra color che son sospesi,
    e donna mi chiamò beata e bella,
    tal che di comandare io la richiesi.

    Lucevan li occhi suoi più che la stella;
    e cominciommi a dir soave e piana,
    con angelica voce, in sua favella:

    "O anima cortese mantoana,
    di cui la fama ancor nel mondo dura,
    e durerà quanto 'l mondo lontana,

    l'amico mio, e non de la ventura,
    ne la diserta piaggia è impedito
    sì nel cammin, che vòlt' è per paura;

    e temo che non sia già sì smarrito,
    ch'io mi sia tardi al soccorso levata,
    per quel ch'i' ho di lui nel cielo udito.

    Or movi, e con la tua parola ornata
    e con ciò c'ha mestieri al suo campare,
    l'aiuta sì ch'i' ne sia consolata.

    I' son Beatrice che ti faccio andare;
    vegno del loco ove tornar disio;
    amor mi mosse, che mi fa parlare.

    Quando sarò dinanzi al segnor mio,
    di te mi loderò sovente a lui".
    Tacette allora, e poi comincia' io:

    "O donna di virtù sola per cui
    l'umana spezie eccede ogne contento
    di quel ciel c'ha minor li cerchi sui,

    tanto m'aggrada il tuo comandamento,
    che l'ubidir, se già fosse, m'è tardi;
    più non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento.

    Ma dimmi la cagion che non ti guardi
    de lo scender qua giuso in questo centro
    de l'ampio loco ove tornar tu ardi".

    "Da che tu vuo' saver cotanto a dentro,
    dirotti brievemente", mi rispuose,
    "perch' i' non temo di venir qua entro.

    Temer si dee di sole quelle cose
    c'hanno potenza di fare altrui male;
    de l'altre no, ché non son paurose.

    I' son fatta da Dio, sua mercé, tale,
    che la vostra miseria non mi tange,
    né fiamma d'esto 'ncendio non m'assale.

    Donna è gentil nel ciel che si compiange
    di questo 'mpedimento ov' io ti mando,
    sì che duro giudicio là sù frange.

    Questa chiese Lucia in suo dimando
    e disse: - Or ha bisogno il tuo fedele
    di te, e io a te lo raccomando -.

    Lucia, nimica di ciascun crudele,
    si mosse, e venne al loco dov' i' era,
    che mi sedea con l'antica Rachele.

    Disse: - Beatrice, loda di Dio vera,
    ché non soccorri quei che t'amò tanto,
    ch'uscì per te de la volgare schiera?

    Non odi tu la pieta del suo pianto,
    non vedi tu la morte che 'l combatte
    su la fiumana ove 'l mar non ha vanto? -.

    Al mondo non fur mai persone ratte
    a far lor pro o a fuggir lor danno,
    com' io, dopo cotai parole fatte,

    venni qua giù del mio beato scanno,
    fidandomi del tuo parlare onesto,
    ch'onora te e quei ch'udito l'hanno".

    Poscia che m'ebbe ragionato questo,
    li occhi lucenti lagrimando volse,
    per che mi fece del venir più presto.

    E venni a te così com' ella volse:
    d'inanzi a quella fiera ti levai
    che del bel monte il corto andar ti tolse.

    Dunque: che è? perché, perché restai,
    perché tanta viltà nel core allette,
    perché ardire e franchezza non hai,

    poscia che tai tre donne benedette
    curan di te ne la corte del cielo,
    e 'l mio parlar tanto ben ti promette?».

    Quali fioretti dal notturno gelo
    chinati e chiusi, poi che 'l sol li 'mbianca,
    si drizzan tutti aperti in loro stelo,

    tal mi fec' io di mia virtude stanca,
    e tanto buono ardire al cor mi corse,
    ch'i' cominciai come persona franca:

    «Oh pietosa colei che mi soccorse!
    e te cortese ch'ubidisti tosto
    a le vere parole che ti porse!

    Tu m'hai con disiderio il cor disposto
    sì al venir con le parole tue,
    ch'i' son tornato nel primo proposto.

    Or va, ch'un sol volere è d'ambedue:
    tu duca, tu segnore e tu maestro».
    Così li dissi; e poi che mosso fue,

    intrai per lo cammino alto e silvestro.
    Angela_______ari@dipoesi@


    __Paginedivetro_BLOG__ di ari@dipoesi@

    pagine di vetro




  • OFFLINE
    ariadipoesia
    Post: 536
    Registrato il: 30/01/2003
    Sesso: Femminile
    Fabbricante di idee
    00 19/10/2004 16:32
    Inferno: Canto III
    [Canto terzo, nel quale tratta de la porta e de l'entrata de l'inferno e del fiume d'Acheronte, de la pena di coloro che vissero sanza opere di fama degne, e come il demonio Caron li trae in sua nave e come elli parlò a l'auttore; e tocca qui questo vizio ne la persona di papa Cilestino.]

    'Per me si va ne la città dolente,
    per me si va ne l'etterno dolore,
    per me si va tra la perduta gente.

    Giustizia mosse il mio alto fattore;
    fecemi la divina podestate,
    la somma sapïenza e 'l primo amore.

    Dinanzi a me non fuor cose create
    se non etterne, e io etterno duro.
    Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate'.

    Queste parole di colore oscuro
    vid' ïo scritte al sommo d'una porta;
    per ch'io: «Maestro, il senso lor m'è duro».

    Ed elli a me, come persona accorta:
    «Qui si convien lasciare ogne sospetto;
    ogne viltà convien che qui sia morta.

    Noi siam venuti al loco ov' i' t'ho detto
    che tu vedrai le genti dolorose
    c'hanno perduto il ben de l'intelletto».

    E poi che la sua mano a la mia puose
    con lieto volto, ond' io mi confortai,
    mi mise dentro a le segrete cose.

    Quivi sospiri, pianti e alti guai
    risonavan per l'aere sanza stelle,
    per ch'io al cominciar ne lagrimai.

    Diverse lingue, orribili favelle,
    parole di dolore, accenti d'ira,
    voci alte e fioche, e suon di man con elle

    facevano un tumulto, il qual s'aggira
    sempre in quell' aura sanza tempo tinta,
    come la rena quando turbo spira.

    E io ch'avea d'error la testa cinta,
    dissi: «Maestro, che è quel ch'i' odo?
    e che gent' è che par nel duol sì vinta?».

    Ed elli a me: «Questo misero modo
    tegnon l'anime triste di coloro
    che visser sanza 'nfamia e sanza lodo.

    Mischiate sono a quel cattivo coro
    de li angeli che non furon ribelli
    né fur fedeli a Dio, ma per sé fuoro.

    Caccianli i ciel per non esser men belli,
    né lo profondo inferno li riceve,
    ch'alcuna gloria i rei avrebber d'elli».

    E io: «Maestro, che è tanto greve
    a lor che lamentar li fa sì forte?».
    Rispuose: «Dicerolti molto breve.

    Questi non hanno speranza di morte,
    e la lor cieca vita è tanto bassa,
    che 'nvidïosi son d'ogne altra sorte.

    Fama di loro il mondo esser non lassa;
    misericordia e giustizia li sdegna:
    non ragioniam di lor, ma guarda e passa».

    E io, che riguardai, vidi una 'nsegna
    che girando correva tanto ratta,
    che d'ogne posa mi parea indegna;

    e dietro le venìa sì lunga tratta
    di gente, ch'i' non averei creduto
    che morte tanta n'avesse disfatta.

    Poscia ch'io v'ebbi alcun riconosciuto,
    vidi e conobbi l'ombra di colui
    che fece per viltade il gran rifiuto.

    Incontanente intesi e certo fui
    che questa era la setta d'i cattivi,
    a Dio spiacenti e a' nemici sui.

    Questi sciaurati, che mai non fur vivi,
    erano ignudi e stimolati molto
    da mosconi e da vespe ch'eran ivi.

    Elle rigavan lor di sangue il volto,
    che, mischiato di lagrime, a' lor piedi
    da fastidiosi vermi era ricolto.

    E poi ch'a riguardar oltre mi diedi,
    vidi genti a la riva d'un gran fiume;
    per ch'io dissi: «Maestro, or mi concedi

    ch'i' sappia quali sono, e qual costume
    le fa di trapassar parer sì pronte,
    com' i' discerno per lo fioco lume».

    Ed elli a me: «Le cose ti fier conte
    quando noi fermerem li nostri passi
    su la trista riviera d'Acheronte».

    Allor con li occhi vergognosi e bassi,
    temendo no 'l mio dir li fosse grave,
    infino al fiume del parlar mi trassi.

    Ed ecco verso noi venir per nave
    un vecchio, bianco per antico pelo,
    gridando: «Guai a voi, anime prave!

    Non isperate mai veder lo cielo:
    i' vegno per menarvi a l'altra riva
    ne le tenebre etterne, in caldo e 'n gelo.

    E tu che se' costì, anima viva,
    pàrtiti da cotesti che son morti».
    Ma poi che vide ch'io non mi partiva,

    disse: «Per altra via, per altri porti
    verrai a piaggia, non qui, per passare:
    più lieve legno convien che ti porti».

    E 'l duca lui: «Caron, non ti crucciare:
    vuolsi così colà dove si puote
    ciò che si vuole, e più non dimandare».

    Quinci fuor quete le lanose gote
    al nocchier de la livida palude,
    che 'ntorno a li occhi avea di fiamme rote.

    Ma quell' anime, ch'eran lasse e nude,
    cangiar colore e dibattero i denti,
    ratto che 'nteser le parole crude.

    Bestemmiavano Dio e lor parenti,
    l'umana spezie e 'l loco e 'l tempo e 'l seme
    di lor semenza e di lor nascimenti.

    Poi si ritrasser tutte quante insieme,
    forte piangendo, a la riva malvagia
    ch'attende ciascun uom che Dio non teme.

    Caron dimonio, con occhi di bragia
    loro accennando, tutte le raccoglie;
    batte col remo qualunque s'adagia.

    Come d'autunno si levan le foglie
    l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo
    vede a la terra tutte le sue spoglie,

    similemente il mal seme d'Adamo
    gittansi di quel lito ad una ad una,
    per cenni come augel per suo richiamo.

    Così sen vanno su per l'onda bruna,
    e avanti che sien di là discese,
    anche di qua nuova schiera s'auna.

    «Figliuol mio», disse 'l maestro cortese,
    «quelli che muoion ne l'ira di Dio
    tutti convegnon qui d'ogne paese;

    e pronti sono a trapassar lo rio,
    ché la divina giustizia li sprona,
    sì che la tema si volve in disio.

    Quinci non passa mai anima buona;
    e però, se Caron di te si lagna,
    ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona».

    Finito questo, la buia campagna
    tremò sì forte, che de lo spavento
    la mente di sudore ancor mi bagna.

    La terra lagrimosa diede vento,
    che balenò una luce vermiglia
    la qual mi vinse ciascun sentimento;

    e caddi come l'uom cui sonno piglia.
    Angela_______ari@dipoesi@


    __Paginedivetro_BLOG__ di ari@dipoesi@

    pagine di vetro




  • OFFLINE
    ariadipoesia
    Post: 537
    Registrato il: 30/01/2003
    Sesso: Femminile
    Fabbricante di idee
    00 19/10/2004 16:50
    Inferno: Canto IV
    [Canto quarto, nel quale mostra del primo cerchio de l'inferno, luogo detto Limbo, e quivi tratta de la pena de' non battezzati e de' valenti uomini, li quali moriron innanzi l'avvenimento di Gesù Cristo e non conobbero debitamente Idio; e come Iesù Cristo trasse di questo luogo molte anime.]

    Ruppemi l'alto sonno ne la testa
    un greve truono, sì ch'io mi riscossi
    come persona ch'è per forza desta;

    e l'occhio riposato intorno mossi,
    dritto levato, e fiso riguardai
    per conoscer lo loco dov' io fossi.

    Vero è che 'n su la proda mi trovai
    de la valle d'abisso dolorosa
    che 'ntrono accoglie d'infiniti guai.

    Oscura e profonda era e nebulosa
    tanto che, per ficcar lo viso a fondo,
    io non vi discernea alcuna cosa.

    «Or discendiam qua giù nel cieco mondo»,
    cominciò il poeta tutto smorto.
    «Io sarò primo, e tu sarai secondo».

    E io, che del color mi fui accorto,
    dissi: «Come verrò, se tu paventi
    che suoli al mio dubbiare esser conforto?».

    Ed elli a me: «L'angoscia de le genti
    che son qua giù, nel viso mi dipigne
    quella pietà che tu per tema senti.

    Andiam, ché la via lunga ne sospigne».
    Così si mise e così mi fé intrare
    nel primo cerchio che l'abisso cigne.

    Quivi, secondo che per ascoltare,
    non avea pianto mai che di sospiri
    che l'aura etterna facevan tremare;

    ciò avvenia di duol sanza martìri,
    ch'avean le turbe, ch'eran molte e grandi,
    d'infanti e di femmine e di viri.

    Lo buon maestro a me: «Tu non dimandi
    che spiriti son questi che tu vedi?
    Or vo' che sappi, innanzi che più andi,

    ch'ei non peccaro; e s'elli hanno mercedi,
    non basta, perché non ebber battesmo,
    ch'è porta de la fede che tu credi;

    e s'e' furon dinanzi al cristianesmo,
    non adorar debitamente a Dio:
    e di questi cotai son io medesmo.

    Per tai difetti, non per altro rio,
    semo perduti, e sol di tanto offesi
    che sanza speme vivemo in disio».

    Gran duol mi prese al cor quando lo 'ntesi,
    però che gente di molto valore
    conobbi che 'n quel limbo eran sospesi.

    «Dimmi, maestro mio, dimmi, segnore»,
    comincia' io per volere esser certo
    di quella fede che vince ogne errore:

    «uscicci mai alcuno, o per suo merto
    o per altrui, che poi fosse beato?».
    E quei che 'ntese il mio parlar coverto,

    rispuose: «Io era nuovo in questo stato,
    quando ci vidi venire un possente,
    con segno di vittoria coronato.

    Trasseci l'ombra del primo parente,
    d'Abèl suo figlio e quella di Noè,
    di Moïsè legista e ubidente;

    Abraàm patrïarca e Davìd re,
    Israèl con lo padre e co' suoi nati
    e con Rachele, per cui tanto fé,

    e altri molti, e feceli beati.
    E vo' che sappi che, dinanzi ad essi,
    spiriti umani non eran salvati».

    Non lasciavam l'andar perch' ei dicessi,
    ma passavam la selva tuttavia,
    la selva, dico, di spiriti spessi.

    Non era lunga ancor la nostra via
    di qua dal sonno, quand' io vidi un foco
    ch'emisperio di tenebre vincia.

    Di lungi n'eravamo ancora un poco,
    ma non sì ch'io non discernessi in parte
    ch'orrevol gente possedea quel loco.

    «O tu ch'onori scïenzïa e arte,
    questi chi son c'hanno cotanta onranza,
    che dal modo de li altri li diparte?».

    E quelli a me: «L'onrata nominanza
    che di lor suona sù ne la tua vita,
    grazïa acquista in ciel che sì li avanza».

    Intanto voce fu per me udita:
    «Onorate l'altissimo poeta;
    l'ombra sua torna, ch'era dipartita».

    Poi che la voce fu restata e queta,
    vidi quattro grand' ombre a noi venire:
    sembianz' avevan né trista né lieta.

    Lo buon maestro cominciò a dire:
    «Mira colui con quella spada in mano,
    che vien dinanzi ai tre sì come sire:

    quelli è Omero poeta sovrano;
    l'altro è Orazio satiro che vene;
    Ovidio è 'l terzo, e l'ultimo Lucano.

    Però che ciascun meco si convene
    nel nome che sonò la voce sola,
    fannomi onore, e di ciò fanno bene».

    Così vid' i' adunar la bella scola
    di quel segnor de l'altissimo canto
    che sovra li altri com' aquila vola.

    Da ch'ebber ragionato insieme alquanto,
    volsersi a me con salutevol cenno,
    e 'l mio maestro sorrise di tanto;

    e più d'onore ancora assai mi fenno,
    ch'e' sì mi fecer de la loro schiera,
    sì ch'io fui sesto tra cotanto senno.

    Così andammo infino a la lumera,
    parlando cose che 'l tacere è bello,
    sì com' era 'l parlar colà dov' era.

    Venimmo al piè d'un nobile castello,
    sette volte cerchiato d'alte mura,
    difeso intorno d'un bel fiumicello.

    Questo passammo come terra dura;
    per sette porte intrai con questi savi:
    giugnemmo in prato di fresca verdura.

    Genti v'eran con occhi tardi e gravi,
    di grande autorità ne' lor sembianti:
    parlavan rado, con voci soavi.

    Traemmoci così da l'un de' canti,
    in loco aperto, luminoso e alto,
    sì che veder si potien tutti quanti.

    Colà diritto, sovra 'l verde smalto,
    mi fuor mostrati li spiriti magni,
    che del vedere in me stesso m'essalto.

    I' vidi Eletra con molti compagni,
    tra ' quai conobbi Ettòr ed Enea,
    Cesare armato con li occhi grifagni.

    Vidi Cammilla e la Pantasilea;
    da l'altra parte vidi 'l re Latino
    che con Lavina sua figlia sedea.

    Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
    Lucrezia, Iulia, Marzïa e Corniglia;
    e solo, in parte, vidi 'l Saladino.

    Poi ch'innalzai un poco più le ciglia,
    vidi 'l maestro di color che sanno
    seder tra filosofica famiglia.

    Tutti lo miran, tutti onor li fanno:
    quivi vid' ïo Socrate e Platone,
    che 'nnanzi a li altri più presso li stanno;

    Democrito che 'l mondo a caso pone,
    Dïogenès, Anassagora e Tale,
    Empedoclès, Eraclito e Zenone;

    e vidi il buono accoglitor del quale,
    Dïascoride dico; e vidi Orfeo,
    Tulïo e Lino e Seneca morale;

    Euclide geomètra e Tolomeo,
    Ipocràte, Avicenna e Galïeno,
    Averoìs, che 'l gran comento feo.

    Io non posso ritrar di tutti a pieno,
    però che sì mi caccia il lungo tema,
    che molte volte al fatto il dir vien meno.

    La sesta compagnia in due si scema:
    per altra via mi mena il savio duca,
    fuor de la queta, ne l'aura che trema.

    E vegno in parte ove non è che luca.
    Angela_______ari@dipoesi@


    __Paginedivetro_BLOG__ di ari@dipoesi@

    pagine di vetro