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ATTO SECONDO



SCENA PRIMA

Camera con tavolino.

ROSAURA e FLORINDO

ROS. Qui, signor Florindo, qui in questa camera staremo con più libertà.
FLOR. Ma non vorrei che il vostro signor padre ci sorprendesse.
ROS. Non vi è pericolo. Egli sta presentemente in compagnia di un poeta e di una poetessa forestieri, che sono marito e moglie. E poi, se anche qui mi ritrovasse con voi, non potrebbe dir nulla, avendomi egli stesso accordato che possa a voi far vedere i miei sonetti; e si compromette che voi non sappiate rispondere.
FLOR. Sappiate che la risposta ad uno di essi è fatta.
ROS. Così presto?
FLOR. O bene, o male, ho risposto, ed ho creduto che la celerità possa acquistarmi maggior merito dell’attenzione.
ROS. Deh, non mi sospendete più lungamente il piacere. Fatemi sentire questa vostra quasi estemporanea risposta.
FLOR. Vi servo subito. Compatirete.
ROS. So il vostro merito.
FLOR. Favorite, se pur v’aggrada, leggere il vostro secondo sonetto, ed io alle quartine e alle terzine di mano in mano vi risponderò.
ROS. Lo farò per obbedirvi. Dopo il sonetto petrarchesco, con cui Nice si disponeva di palesare il suo amore a Fileno, la stessa Nice, con un altro sonetto di stile piano e comune, si risolve di palesarlo.
FLOR. Ed io faccio che, nella risposta, Fileno a Nice spieghi il suo sentimento.
ROS. Mi sarà caro sentirlo.

SONETTO
Poiché Amor mi consiglia a dir mie pene,
Quel che m’arde non taccio intenso ardore.
Vo’ svelar la mia fiamma al mio pastore,
In cui solo ho riposta ogni mia spene.
FLOR. Fileno risponde colle medesime ultime parole:
Sento, o bella, pietà delle tue pene,
Ed eguale nel sen provo l’ardore.
Più felice di me non fia pastore,
Se di te m’alimenta amica spene.
ROS. Da Filen, che nel petto il mio cuor tiene,
Se pietà sperar posso, e non rigore,
Fortunato penar, dolce dolore,
Sola e vera cagion d’ogni mio bene!
FLOR. Nice, che del mio cor l’impero tiene,
Suol usar meco, e non temer rigore.
Nascer può dal suo sdegno il mio dolore,
Vien dalla sua pietate ogni mio bene.
ROS. Sappia dunque Filen ch’io peno ed amo,
Che il frutto onesto dell’onesto affetto
Di mia fede in mercè sospiro e bramo.
FLOR. Se tu mi ami, idol mio, sappi ch’io t’amo
E a misura del tuo gentile affetto,
Darti prova del mio sospiro e bramo.
ROS. Or che l’arcano mio m’uscì dal petto,
Amor pietoso in mio soccorso io chiamo,
E da Fileno il mio conforto aspetto.
FLOR. Più frenar non poss’io l’amor nel petto:
Nice sola sospiro, e Nice chiamo,
E la sua destra ed il suo cuore aspetto.
ROS. Più frenare non puoi l’amor nel petto?
FLOR. Nice sola sospiro, e Nice chiamo,
E la sua destra ed il suo cuore aspetto.
ROS. Ah, se creder potessi che la vostra risposta fosse dettata dal cuore, felice me!
FLOR. Da dove ebbe origine il vostro sonetto?
ROS. Da una vera passione.
FLOR. E il mio da un affetto sincero.
ROS. Credete voi ch’io abbia inteso parlar di Nice?
FLOR. Sotto il nome di Nice, scorgo quel di Rosaura.
ROS. E Fileno chi è?
FLOR. Florindo, che a Rosaura risponde.
ROS. Ah, signor Florindo, voi avete rilevato dal mio sonetto quello che altrimenti non avrei avuto coraggio di dirvi.
FLOR. Spesse volte le Muse hanno fatto finezze simili.
ROS. Che effetto potrà produrre questa mia poetica confessione?
FLOR. Le nostre nozze, se vi degnate approvarle.
ROS. Dunque dalla poesia deriverà il maggiore de’ miei contenti.



SCENA SECONDA

BEATRICE e detti.

BEAT. Rosaura, che fate qui in questa camera? E voi, signor Florindo, dove avete imparate le convenienze?
FLOR. Signora, non è questa la prima volta ch’io sia venuto in casa vostra.
ROS. Mio padre mi ha detto che gli faccia vedere un certo sonetto.
BEAT. Vostro padre è un pazzo. Egli ha meno giudizio di un ragazzo di dieci anni; ed io, che per mia disgrazia sono sua moglie, non voglio perdere di vista il decoro vostro e di questa casa.
FLOR. Signora Beatrice, io ho tutta la venerazione per la vostra casa, e tutto il rispetto per la signora Rosaura.
BEAT. Ebbene dunque, cosa pretendete da questa ragazza?
FLOR. Se non temessi una negativa, vi spiegherei il mio desiderio.
BEAT. Io sono una donna ragionevole; se parlerete, vi risponderò.
FLOR. Vedo che mi capite senza ch’io parli. Sospiro le nozze della signora Rosaura.
BEAT. E voi, signorina, che cosa dite?
ROS. Mi raccomando alla vostra bontà.
BEAT. Sì, ora vi raccomandate a me.



SCENA TERZA

OTTAVIO e detti.

OTT. Ecco qui, sempre gente in questa camera. Dove scrivo, non voglio nessuno.
BEAT. Io ci sono venuta, perché il mio dovere mi ci ha portata.
OTT. Favorite andar nelle vostre camere.
FLOR. Signor Ottavio, perdonatemi.
OTT. Vi riverisco, Breviano Bilio.
BEAT. Posso parlarvi di un affare che preme?
OTT. Signora no. Ho da correggere la prefazione per l’accademia di questa sera.
BEAT. Signora Rosaura, andiamo.
ROS. Anch’io avrei da terminare una composizione per questa sera.
OTT. Terminatela, e voi lasciatela stare.
BEAT. Sì, fate bene. Resterà qui col signor Florindo.
OTT. Breviano Bilio è nostro accademico.
BEAT. E io...
OTT. E voi andate a badare alla rocca.
BEAT. Mi preme l’onore di questa casa.
OTT. Se vi premesse l’onore di questa casa, non sareste un’ignorantaccia, inimica della poesia.
BEAT. Più tosto che avere la malattia dei versi, vorrei essere zoppa e guercia.
OTT. Gente cui si fa notte innanzi sera. (siede al tavolino)
BEAT. Il bell’onore che acquisterà la vostra figliuola!
OTT. Gente cui si fa notte innanzi sera.
BEAT. Uomo senza cervello..
OTT. Gente cui si fa notte...
BEAT. Voi mi volete far crepare.
OTT. Innanzi sera.
BEAT. Il diavolo che vi porti. (parte)



SCENA QUARTA

OTTAVIO, ROSAURA e FLORINDO

OTT. Gente cui si fa notte innanzi sera.
Gente cui si fa notte innanzi sera.
Figliuoli miei, lasciatemi in quiete. Ho da correggere la prefazione. Il principio non mi dispiace. O ignorantissima temeraria gente, che contro la poetica sovrumana virtù ingiurie pessime scaricate...
ROS. Signor padre, vado anch’io a terminare la mia composizione.
OTT. Sì. Per dar principio alle nostre accademiche esercitazioni...
FLOR. Anch’io vi leverò l’incomodo.
OTT. Sì. Ragion vuole che io, poiché del principesco onore...
ROS. Il signor Florindo può venir meco?
OTT. Sì. Parola dell’istituto nostro faccia...
FLOR. Mi permettete ch’io vada ad assistere la signora Rosaura?
OTT. Sì. E del titolo nostro e dell’accademica pastorale...
ROS. Vado.
OTT. Sì. Sappiasi dunque...
FLOR. Ed io l’accompagno.
OTT. Sì. Sappiasi dunque...
FLOR. Andiamo a terminare le nostre composizioni. (a Rosaura)
ROS. E se viene la signora matrigna?
FLOR. Due onesti amanti non si prendono soggezione. Andiamo, la mia cara Nice.
Nice sola sospiro, e Nice chiamo,
E la sua destra ed il suo core aspetto.
ROS. Amor pietoso in mio soccorso io chiamo,
E da Fileno il mio conforto aspetto. (partono)



SCENA QUINTA

OTTAVIO solo. Ascolta, s’alza un poco e poi siede.

OTT. Che brava ragazza è costei! Ella è l’unica mia consolazione; non la mariterei per tutto l’oro del mondo. La voglio in casa con me, me la voglio goder io la mia virtuosa figliuola. Ma qui conviene terminare la prefazione. Quanto mi dà fastidio dover comporre in prosa! Se avessi da scrivere in versi, mi sarebbe più facile, e in caso di bisogno, mi aiuterei col rimario. Orsù, sono nell’impegno, convien ch’io faccia di tutto per riuscir con onore. Poco manca alla sera. Vediamo che ora è. (mette fuori l’orologio) Oh diavolo! Mi sono scordato di caricarlo; non va, è giù la corda, e non so che ora sia. Ehi, Brighella. (chiama) Brighella anderà a vedere che ora è, e mi accomoderà l’orologio. Io non voglio perder tempo. Ehi, Brighella. Starà componendo, vi vuol pazienza, verrà. Andiamo avanti. Poiché se tutte le arcadi ed accademiche denominazioni... (scrivendo)



SCENA SESTA

BRIGHELLA ed il suddetto.

BRIGH. Sior padron...
OTT. La novella instituzione nostra...
BRIGH. Gh’è qua un zovene spiritoso, dilettante anca lu de poesia, fradello de siora Corallina, che vorria reverirla. Ela contenta che el passa?
OTT. Non senza ponderazione e mistero...
BRIGH. Ela contenta che el passa?
OTT. Sì. Non senza ponderazione e mistero.
BRIGH. Adesso el fazzo vegnir. Poverazzo, che el magna anca élo. (parte)
OTT. La novella pianta d’alloro abbiamo noi per impresa... Brighella, tieni quest’orologio, e accomodalo sulle ore di piazza. Brighella è andato via. Qualche nuovo estro lo avrà richiamato. Or ora ho finito. Poiché, siccome le tenerelle piante crescono coll’andar del tempo, e della loro ombra ingombrano i larghi piani... Oh bel poetico sentimento prosaico! E della loro ombra ingombrano i larghi piani.



SCENA SETTIMA

ARLECCHINO ed OTTAVIO

ARL. Fazzo umilissima reverenza.
OTT. Tieni. (senza guardarlo gli dà l’orologio, credendolo Brighella) Noi così parimenti, qual novelle piante...
ARL. A mi?
OTT. Sì. Non vedi che va male? Noi così parimenti...
ARL. Cossa ghe n’oio da far?
OTT. Va via, lasciami finir questa prefazione.
ARL. L’è un omo generoso, el m’ha donà un relogio alla prima. Pazienza, l’anderò a vender. (vuol partire)
OTT. Andremo i teneri ramuscelli... Chi è colui, che parte da questa camera? (vedendo Arlecchino) Ehi, galantuomo.
ARL. Signor.
OTT. Che cosa volete? Che cosa fate in questa camera?
ARL. Eh gnente, vago subito.
OTT. Che cos’è quello? (vede l’orologio)
ARL. L’è l’effetto delle so care grazie.
OTT. Come? Il mio orologio? Ah ladro disgraziato! Tu mi hai rubato l’orologio.
ARL. Se la me l’ha dà ella colle so man.
OTT. Eh, chi è di là? Presto, voglio mandare a chiamar gli sbirri.
ARL. Me maraveio, sior, son un galantomo.
OTT. Sei un disgraziato, un ladro, un assassino. Ti sei introdotto in casa mia per rubare, e ti sei prevalso della mia distrazione per rapirmi l’orologio di mano.
ARL. Ghe digo che son un omo onorato.
OTT. Le Muse, che non abbandonano i suoi divoti, mi hanno avvertito in tempo per iscoprirti.
ARL. Sia maledetto quando son vegnù qua.
OTT. Ti voglio far frustare, ti voglio far andar in galera.
Rapace, rapitore, empio, vigliacco.
ARL. Son un omo d’onor, corpo de bacco.
OTT. (Come! È un poeta?)
Mi avete voi rubato l’oriuolo?
ARL. Mi son un galantom, non un mariuolo.
OTT. (È poeta, è poeta!) (da sé) Caro amico, vi domando perdono.
Ditemi, siete voi servo d’Apollo?
ARL. Canto ancor io colla chitarra al collo.
OTT. Oh caro! Vi domando un’altra volta perdono. Io ero astratto, io ero dall’estro invaso. Ditemi, come è andata la cosa dell’orologio?
ARL. Me l’avì dà colle vostre man.
OTT. Sì, è vero. Ho creduto di darlo a Brighella; compatitemi, e in quest’abbraccio ricevete un pegno dell’amor mio.
ARL. (Sta volta, se no savevo far versi, stava fresco). (da sé)
OTT. Ditemi, caro, chi siete? Come vi chiamate?
ARL. Mi me chiamo Arlecchin, e son fradello de Corallina.
OTT. Fratello della signora Corallina?
ARL. Per servirla.
OTT. Di quella brava improvvisatrice?
ARL. Giusto de quella.
OTT. Oh siate benedetto! Lasciate ch’io vi dia un bacio e che vi giuri perpetua amicizia e poetica fratellanza.
ARL. La sappia, sior, che le cosse le va mal.
OTT. Sapete anche voi improvvisare?
ARL. Qualche volta.
OTT. Bravo.
ARL. L’è tre zorni, che se magna pochetto.
OTT. Questa sera si farà in casa mia una bella accademia.
ARL. Me ne rallegro. E la me creda, signor, che ho una fame terribile.
OTT. Sentirete, sentirete che roba.
ARL. Se mai la se contentasse...
OTT. Io compongo nello stile eroico.
ARL. De farne dar qualcossa...
OTT. E mia figlia compone nello stil petrarchesco.
ARL. La favorisca de ascoltarme una parola sola.
OTT. Dite pure, v’ascolto.
ARL. Ho fame.
OTT. Sì, caro, sì, mangerete. Venite qui, voglio farvi sentir un sonetto.
ARL. Lo sentirò più volentiera, dopo che averò magnà.
OTT. Voglio che mi diciate la vostra opinione. Ma ecco quel diavolo di mia moglie. Non posso seguitare il sonetto, non posso terminare la prefazione. Prenderò i miei fogli, e mi anderò a serrare nella camera di Brighella. (parte)
ARL. Ah, signor poeta. (dietro ad Ottavio)



SCENA OTTAVA

BEATRICE ed ARLECCHINO

BEAT. Galantuomo, chi siete voi?
ARL. Un poeta, per servirla.
BEAT. Siete anche voi uno scroccone simile al signor Tonino e alla signora Corallina?
ARL. Giusto; son fradello della signora Corallina.
BEAT. E siete anche voi venuto a scroccare con essi?
ARL. Procurerò anca mi de farme onor.
BEAT. Fareste meglio andar a lavorare.
ARL. Per dirghela, no ghe n’ho troppa volontà.
BEAT. Signor sì, col pretesto d’esser poeta, si fa vita oziosa e da vagabondo.
ARL. Chi ela in grazia?
BEAT. Sono la padrona di questa casa.
ARL. M’imagino che la sarà poetessa anca ella.
BEAT. Sono il diavolo che vi porti. Andate fuori di qui.
ARL. Come! Cussì se scazza i galantomeni?
BEAT. Andatene, altrimenti vi farò cacciare per forza.
ARL. La donna brava e accorta,
Scaccia chi ghe vol tor, e tol chi porta. (parte)



SCENA NONA

CORALLINA e BEATRICE

COR. Signora, perché scacciate voi mio fratello?
BEAT. Perché la mia casa non ha da essere il ricetto dei vagabondi.
COR. Signora mia, permettetemi ch’io vi dica un apologo.
BEAT. Che cos’è quest’apologo?
COR. Vuol dire una favoletta.
BEAT. Io non mi curo delle vostre scioccherie.
COR. Sentitela, e non vi dispiacerà.
Cadde una pecorella dentro un pozzo
E facea per uscir qualche schiamazzo;
Ed un lupo, che aveva pieno il gozzo,
La derideva e ne facea strapazzo.
Giunse il pastore e uccise il lupo sozzo,
E la pecora trasse fuor del guazzo.
S’io la pecora son, che si strapazza,
Rammentatevi il lupo, o gente pazza.
BEAT. Come! Che temerità è questa? Dare a me della pazza?
COR. Signora, v’ingannate, io non parlo di voi.
BEAT. Dunque di chi parlate?
COR. Parla la favola di chi ride del male altrui, di chi si beffa delle altrui miserie, di chi non porgerebbe la mano a un misero che si affoga, per trarlo fuori dal suo pericolo.
BEAT. Io non ho sentimenti sì barbari. Piace a me pure la carità, ma mi piace farla a chi la merita.
COR. Sapete voi distinguere chi più meriti la carità?
BEAT. M’insegnereste ancor questo? La carità la meritano i poveri che vanno questuando, quei che sono imperfetti, quei che domandano pietà colle loro lagrime, colle loro strida.
COR. Permettetemi ch’io vi reciti un’altra favola.
BEAT. Mi direte qualche altra impertinenza?
COR. Non vi è pericolo.
Vi son quattro animali in una grotta,
Ciascun de’ quali il nuovo cibo aspetta.
Entra il custode, e tre di loro in flotta
Gli vanno incontro per mangiare in fretta.
Il coniglio non esce e non borbotta,
E quel che dagli il suo padrone, accetta.
E il padron porge al buon coniglio il frutto,
Perché gli altri trovar lo san per tutto.
BEAT. Vuol dire la vostra favola, per quel che intendo, che la carità va fatta a chi non la sa domandare.
COR. Per l’appunto.
BEAT. Quand’è così, i poeti certamente da me non l’avranno.
COR. E perché?
BEAT. Perché essi domandano più sfacciatamente degli altri, onde li disprezzo tutti egualmente.
COR. Un’altra favola, e vado via.
BEAT. Oh, sono annoiata!
COR. Di animali porcini era una truppa,
Che mangiava di semola la pappa;
Di moscato fu lor data una zuppa,
Entro le madreperle fatte a cappa.
Ciascuno si ritira e si raggruppa,
E dal moscato e dalle perle scappa;
Onde queste parole sono uscite:
Ai porci non si dan le margarite.(parte)
BEAT. Temeraria, indegna! Questo ancor dovrò soffrire? Giuro al cielo, se non mi vendico, non son chi sono.