00 19/10/2004 17:28
SCENA DECIMA

TONINO e BEATRICE

TON. Patrona reverita, con chi la gh’ala?
BEAT. Con quella temeraria di vostra moglie.
TON. Desgraziada! Cossa gh’ala fatto?
BEAT. Mi ha perduto il rispetto.
TON. Baronzella! La prego dirme, come èla stada! La castigherò. (Bisogna imbonirla, chi vol magnar in pase). (da sé)
BEAT. Fa la dottoressa, dice gli apologhi, dice le favole, e offende, e tocca sul vivo. In casa mia?
TON. Me par impussibile che Corallina sia stada capace de un’insolenza de sta sorte, perché so con quanta stima e con quanto respetto la parla de ella. No la fa che lodarse della so bontà, della so cortesia. (Voggio veder se me basta l’animo de farmela amiga, acciò che no la me rebalta). (da sé)
BEAT. Questa non è la maniera di vivere a spalle altrui, a forza d’impertinenze.
TON. Mi ghe assicuro, che sparzeria tutto el sangue che gh’ho in te le vene, perché mia muggier non gh’avesse dà sto desgusto.
BEAT. Vi dispiacerà, perché temete ch’io vi faccia uscire di questa casa.
TON. La me perdona, no la me cognosse. Mi son un omo che vive per tutto e se no la me vede volentiera, in sto momento son pronto andar via. Me despiase unicamente esser stà causa del so disturbo, perché, la me permetta che ghe lo diga de cuor, ella xe una persona che stimo infinitamente, e ghe zuro che in tutto quel mondo che ho praticà, non ho trovà una persona più giusta, più amabile, più discreta de ella.
BEAT. Signor poeta, mi burlate voi?
TON. No son capace de torme sta libertà. Ella la xe una signora che obbliga a prima vista, che liga i cuori delle persone, e che imprime in tel medesimo tempo amor, reverenza e respetto.
BEAT. Signor Tonino, non istate così in disagio. Accomodatevi, sedete.
TON. Per obbedirla, accetterò le so grazie. (Eh, questa colle donne la xe una scuola che no falla mai). (da sé, prende le sedie)
BEAT. (Povero giovane! le sue disgrazie mi muovono a compassione). (da sé)
TON. La se comoda prima ella.
BEAT. (È tutto civiltà; bisogna sia una persona ben nata). (da sé)
TON. Chi dirave mai che una signora come ella, savesse cussì ben governar una casa, e gh’avesse massime cussì giuste, cussì economiche, cussì esemplari?
BEAT. Certo, se non foss’io, povero mio marito! Questa casa andrebbe in rovina.
TON. Mah! L’è stà ben fortunà el sior Ottavio a trovar una muggier com’ella. Una certa simpatia sento che me obbliga e me trasporta a consacrarghe colla mazor onestà e modestia tutto el mio cuor.
BEAT. Ah, signor Tonino, voi siete poeta.
TON. Cossa vorla dir per questo?
BEAT. Siete avvezzo a fingere.
TON. Un tempo i poeti finzeva, quando i se serviva delle favole per spiegar i propri pensieri, e quando colle iperboli e coi traslati i vestiva de finti colori le parole e i concetti. Adesso la poesia è deventada piana e sincera, e che sia la verità, la senta un sonettin, che ho fatto za un’ora in lode de ella.
BEAT. In lode mia?
TON. In lode soa.
BEAT. Così presto?
TON. L’averlo fatto presto, giustifica che l’ho fatto de cuor. (No la sa, che so improvvisar). (da sé)
BEAT. Io veramente non amo la poesia.
TON. Se no la vol che ghe lo diga, pazienza.
BEAT. È un sonetto in mia lode?
TON. Senz’altro.
BEAT. Via, perché l’avete fatto voi, lo sentirò volentieri.
TON. (Sentirse lodar piase a tutti, e specialmente alle donne). (da sé) La senta, e la compatissa.

SONETTO
Morbido e folto crin, fra il biondo e il nero( ),
Spaziosa fronte, e bianco viso e pieno,
Occhio celeste, or torbido, or sereno;
Angusto labbro, rigoroso, austero.
Tenera e breve man, degna d’impero,
Candido, bipartito, amabil seno,
D’ogni proporzion corpo ripieno,
Aria sprezzante, e portamento altero.
Questa è di voi visibile bellezza,
Ma di gloria maggior degna vi rende
La velata beltà, che più si apprezza.
Spirto, che tutto vede e tutto intende,
Arte, che tutto brama e tutto sprezza,
Cuore, che manda fiamme, e non s’accende.
BEAT. Caro signor Tonino, voi mi mortificate.
TON. Ho dito anca poco a quello che dir doveria. Oh, se a sto sonetto ghe podesse metter la coa, la sentirave qualcossa de più.
BEAT. Io non lo merito certamente.
TON. Ma possibile che la sia tanto nemiga della poesia?
BEAT. In verità, che ora la poesia mi comincia a piacere.
TON. Ela contenta che ghe daga qualche lizion?
BEAT. Sì, mi farete piacere.
TON. Benché el so sior consorte ghe ne sa più de mi, el poderà insegnar meggio.
BEAT. Oibò, non ha maniera, non ha comunicativa. Imparerò più facilmente da voi.
TON. Dirala più mal dei poeti?
BEAT. No certamente.
TON. Ghe vorla ben?
BEAT. I poeti della vostra sorte meritano tutta la propensione.
TON. Ghe piase el mio stil?
BEAT. Voi componete con una grazia che innamora.



SCENA UNDICESIMA

OTTAVIO che osserva e detti.

OTT. (Mia moglie accanto al poeta veneziano?) (da sé)
TON. Come ala fatto a innamorarse cussì presto?
OTT. (Innamorarsi?) (da sé)
BEAT. Effetto del vostro merito.
OTT. Signori, li riverisco. (alterato)
TON. Servitor obligatissimo.
OTT. Come si divertono, padroni miei?
TON. Son qua che me dago l’onor de insinuar el gusto della poesia nell’animo della siora Beatrice.
OTT. Eh, voi non me lo darete ad intendere. Beatrice è nemica della virtù.
BEAT. Credetemi, marito mio, che ora principio a prenderci gusto.
OTT. Dite davvero?
TON. Me impegno in pochi zorni de farla poetessa.
OTT. Oh, la fortuna il facesse!
BEAT. Se volete che impari qualche cosa, non mi sturbate.
OTT. No, non vi sturbo, vado via. Caro poeta mio, insegnatele i versi, le rime. Fate voi, mi accomando a voi, vi sarò eternamente obbligato. Beatrice non griderà più contro le accademie, contro le Muse. Che siate benedetto! (Caro poeta! Il cielo me l’ha mandato). (da sé, parte)
BEAT. Avete sentito? Mio marito a voi mi raccomanda.
TON. E mi farò el mio dover.
BEAT. M’insegnerete?
TON. Ghe insegnerò.
BEAT. Ma quando principierete?
TON. Quando che la vol.
BEAT. Sono impaziente d’apprendere le vostre lezioni.
TON. Vorla che adesso ghe scomenza a dar una lizionzina?
BEAT. Mi farete piacere.
TON. La senta sti versi; i se chiama endecasillabi, cioè de undese piè. I xe otto versi, che forma un’ottava rima. El primo se rima col terzo e col quinto; el segondo col quarto e col sesto; e i do ultimi da so posta. La ascolta sta ottava, la la impara, e per adesso ghe basta cussì.
Xe un dono de natura la bellezza,
Che se perde col tempo, e se ne va.
Xe un don della fortuna la ricchezza,
Che poderia scambiarse in povertà.
Quel che se stima più, che più se apprezza,
Xe la fede, el bon cuor, la carità.
Questa xe la lizion, che mi ghe dago;
La impara sta ottavetta, e me ne vago. (parte)
BEAT. Questo giovine mi ha incantato.



SCENA DODICESIMA

BRIGHELLA da bidello e BEATRICE

BRIGH. Signora padrona, me rallegro che la sia deventada amiga della poesia.
BEAT. (Ha parole, ha versi, ha concetti, che farebbero innamorare i sassi). (da sé)
BRIGH. Comandela che ghe recita una ottavetta?
BEAT. Eh, non voglio sentire le tue freddure.
BRIGH. Anca mi me inzegno. Son anca mi un pochettin poeta.
BEAT. Va al diavolo tu e la tua poesia.
BRIGH. Ma el patron m’ha dito che anca ella la scomenza a dilettarse de sta bella virtù.
BEAT. Tu e il tuo padrone siete due pazzi. (parte)
BRIGH. Bon! Elo questo el gusto che l’ha chiappà alla poesia? Ah, pur troppo l’è vero! Le donne son volubili.
Come del cielo instabili le nubili. (parte)



SCENA TREDICESIMA

Sala illuminata.

OTTAVIO vestito pomposamente, seguito da tutti i personaggi. Siedono. OTTAVIO s’alza, e dopo aver fatto riverenze, legge e recita, come segue.

OTT. O ignorantissima temeraria gente, ascoltatori miei gentilissimi, o ignorantissima temeraria gente, che contro la poetica sovrumana virtù ingiurie pessime scaricate, eccoci a dispetto vostro alla fin fine uniti, ragunati e raccolti, per dar principio alle nostre accademiche esercitazioni! Ragion vuole che io, poiché del principesco onore insignito mi trovo, parola dell’istituto nostro altrui faccia; e del titolo nostro, e dell’accademica pastorale, primitiva, novella impresa nostra, tutti e ciascheduno di quei che mi ascoltano, cautamente avvertisca. Non senza ponderazione e mistero la novella pianta d’alloro abbiamo noi per impresa scelta, eletta e destinata, poiché, siccome le tenerelle piante crescono coll’andar del tempo, e della loro ombra ingombrano i larghi piani, noi così parimente, quali novelle piante dall’acqua d’Ippocrene innaffiate, andremo i teneri ramuscelli in forti e robusti rami cangiando. Crepate dunque, invidiosi, sì, crepate (Accademici gentilissimi, meco esclamate voi pure), sì, crepate d’invidia, invidiosissimi che noi invidiate poiché il serenissimo, biondo, canoro Apollo trasformerà questa nostra sontuosa e bene illuminata sala nel monte celebrato Parnaso, e le virtuose donne accademiche nostre in Muse trasformate saranno, e noi saremo in satiri convertiti; e il sommo Giove scaricherà sopra noi i fulmini della sua clemenza, e la provida madre terra ci aprirà il seno benefico, per seppellirci tutti in un abisso di gloria. Ho detto. (siede) Fidalma Ombrosia, a voi. (a Rosaura)
ROS. Dirò una breve canzone lirica.
OTT. (Sarà petrarchesca). (da sé)
ROS. Amore, involto ne’ tuoi lacci ho il core
Né che si sciolga e lo sprigioni io chiedo.
Poiché in van spargerei le voci ai venti.
Chiedo soltanto che l’aspro rigore,
Onde assalire e circondar mi vedo,
Per te in parte si tempri, e si rallenti.
Chiedo de’ miei tormenti
Scemato il tristo e grave
Peso, che oppressa m’ave;
Chiedo che tua pietà mi porga aita,
Prima che manchi in sul finir mia vita.
Aspra è la piaga, che nel seno impressa
Fu dallo stral che non ferisce in vano,
E di colpo leggier pago non resta;
Ma dello stral la ferrea punta istessa
Del mio leggiadro feritore in mano
Alla piaga letal balsamo appresta.
Quella che pria funesta
parve cagion di pianto,
Ora è il mio più bel vanto.
Perdona, Amor, se il pentimento è tardo,
Amo e stringo i tuoi lacci, e bacio il dardo.
Porre vogl’io delle bilance a un lato
L’aspre pene sofferte e i crudi affanni,
E dall’altro un piacer solo amoroso;
E vedrò questo di recente nato
Premer sua lance, e dei passati danni
Vincere il duro grave peso annoso.
Amor orgoglioso
Più in suo voler non sembra;
Di lui più non ramembra
L’alma, che lieta fassi, il crudel modo,
E lieta piango e de’ miei pianti io godo.
OTT. Bravissima. Evviva Fidalma Ombrosia. Ah, che ne dite, eh? Avete sentito mia figlia? Avete sentito il Petrarca? Oh figlia mia! Che tu sia benedetta.
ROS. Compatiranno.
OTT. Sì sì, compatiranno. Una canzone di questa sorta, compatiranno.
ELEON. (Avete sentito la petrarchesca selvatica?) (a Lelio)
LEL. (Credono che per fare una canzone o un sonetto petrarchesco, basti imitarlo rozzamente nei versi, e non pensano alla condotta, all’unità, alla forza, e precisamente alla bellezza degli epiteti e degli aggiunti). (a Eleonora)
OTT. Cintia Sirena, a voi.
ELEON. In difesa d’Amore, accusato ingiustamente di perfido e di crudele.

SONETTO
Perfido Amor? Chi è che d’Amor favella
Con sì poco rispetto, e ingrato tanto?
Del vero Amor, no, non conosce il vanto
Chi lui tiranno e menzognero appella.
Dolci, amabili son le sue quadrella,
D’allegrezza cagione, e non di pianto;
Ed è virtù dell’amoroso incanto,
Ch’ogni cosa all’amante orna ed abbella.
Non è Amor che comanda il serbar fede
All’empio, ingrato, sconoscente cuore,
Che non cura l’affetto, o non lo crede!
Chi ha dall’idol suo sdegno e rigore,
Cambi e cerchi in altrui miglior mercede,
E troverà sempre pietoso Amore. (tutti applaudiscono)
ELEON. Compatiranno.
OTT. Eh, può passare, può passare: non è petrarchesco, ma può passare. Avete sentito mia figlia?
FLOR. (Che dite del sonetto della signora Eleonora?) (a Rosaura)
ROS. (Non è suo: gliel’ha fatto un giovine studente, che lo ha confidato a Brighella). (a Florindo)
FLOR. (Non è cosa fuor di uso. Quasi tutte queste signore, che passano per poetesse, si fanno fare le composizioni dagli altri).
LEL. Parlo a voi, Muse veraci,
Che cantare il ver solete.
Non sperate aver seguaci,
Ché derise in oggi siete.
Più non v’è chi dietro a voi
Perder voglia i giorni suoi.
Non entrate, o meschinelle,
Nello studio d’un legale,
Ché alle vostre rime belle
La bugia colà prevale;
E si studia onninamente
Attrappar qualche cliente.
Non andate, o poverette,
Da quel medico stupendo,
Dove a caso le ricette
Di sua man ci sta scrivendo.
Dar la vita è vostra sorte,
Egli studia a dar la morte.
Lungi, lungi, Muse amare,
Dalla casa del mercante.
Egli studia accumulare
Giorno e notte il suo contante;
E col peso e la misura
D’ingannare altrui procura.
Lungi pur dal giuocatore,
Che di voi disprezza l’arte,
Egli sparge il suo sudore
Sullo studio delle carte,
E procura il suo guadagno
Sulla strage del compagno.
Dalle donne brutte o belle
Voi sarete discacciate,
Che nel liscio della pelle
Spendon mezze le giornate.
Stanno a letto assai di giorno,
E la notte vanno attorno.
Una volta gli amoretti
Favoriva ancor la Musa;
Con canzoni e con sonetti
Far l’amor più non si usa.
Or la gente è persuasa,
Che sia meglio entrar in casa.
Le gran menti non si degnano
Oggi più di poesia;
Studian cose, cose insegnano
Da oscurar la fantasia;
E chi sale troppo in alto,
Fa talvolta un brutto salto.
Non sperate ritrovare
Dai poeti alcun ristoro:
Non pon darvi da mangiare,
Non ne han nemmen per loro;
Per la fame i poverelli
Son di voi fatti ribelli.
Ma se niuno vi vuol seco,
Se ciascun vi manda via,
Muse, su, venite meco,
Io vi prendo in compagnia.
Per il mondo andrem girando,
Gli altrui vizi criticando.
E chi il merito disprezza
Dei poeti e delle Muse,
Gente al male solo avvezza,
Che dal sen virtude escluse,
Proverà se meglio fia
Rispettar la poesia.
Poesia, virtù celeste,
Che in gran pregio un tempo fu,
Che da certe nuove teste
Non si stima in oggi più:
Perché d’altro sono amanti
I viziosi e gl’ignoranti. (tutti applaudiscono)
OTT. Perché d’altro sono amanti
I viziosi e gl’ignoranti.
Perché d’altro sono amanti
I viziosi e gl’ignoranti.

Ovano Pazzio, tenete. (gli dà un bacio) Breviano Bilio, a voi.
FLOR. Fileno chiede consiglio ad Amore, come abbia ad assicurarsi dell’affetto della sua Nice.

SONETTO
Dimmi, pietoso Amor, che far poss’io
Per meritar di Nice mia l’affetto?
Vuoi tu ch’io m’apra di mia mano il petto,
E che in dono al mio bene offra il cor mio?
Vuoi che asperso di pianto acerbo e rio,
A lei mi mostri in doloroso aspetto?
Vuoi ch’io peni senz’ombra di diletto,
Vuoi tu ch’io taccia, e in sen nutra il desio?
Vuoi ch’io l’attenda rispettoso, umile,
O ch’io segua da lunge i passi suoi?
Vuoi ch’io sia nell’amarla ardito, o vile?
Tutto, Amore, farò quel che più vuoi,
Per l’acquisto di lei vaga e gentile.
Deh, consigliami tu che far lo puoi. (tutti applaudiscono)
OTT. Magronia Prudenziana, ora tocca a voi. (a Corallina)
COR. Signore, io non ho preparato niente.
OTT. Dite qualche cosa all’improvviso.
COR. Favorite darmi voi l’argomento.
OTT. Venite qui, rispondete a questo sonetto. A un sonetto mio, a un sonetto mio, estemporaneamente, in lode del glorioso, erudito femmineo sesso. Compatirete.

SONETTO
Spezzate omai le stridule conocchie,
Donne, e venite al fonte d’Aganippe,
Le canore v’attendono sirocchie,
E vi faranno omai tante Menippe.
E voi restate in mezzo alle ranocchie,
Genti, che avete le pupille lippe,
E Apollo mandi un nerbo che vi crocchie,
E v’acciacchi ben bene e spalle, e trippe.
La gloria di Parnaso a voi s’approccia;
Vedo le donne uscir fuori del vulgo,
E mi sento stillare a goccia, a goccia.
La fama delle femmine divulgo,
E tutto fuori della mortal buccia,
Delle femmine in mezzo anch’io rifulgo.
COR. Ringraziamento delle donne. Sonetto colle medesime maledettissime rime.
OTT. Io scrivo sempre con queste rime difficili.
COR. Le donne avvezze sono alle conocchie,
Né soglion bere l’acqua d’Aganippe.
Non sanno alle compagne, o alle sirocchie,
Di Menippo parlare, o di Menippe.
Giovani cantan come le ranocchie,
E quando per l’età diventan lippe,
Forz’è che ognun le sprezzi, ognun le crocchie,
Poiché buone non son, che da far trippe.
La lode vostra al vero non s’approccia;
Ed io, che nata sono in mezzo al vulgo,
Sudo per il rossor più d’una goccia.
Ma poiché in grazia vostra mi divulgo,
Vestita anch’io della novella buccia,
Fra cotante pazzie, pazza rifulgo.
OTT. Oh bello! Oh brava! Evviva. Oh che roba! Oh che roba! A Roma, a Roma, al Campidoglio, al Campidoglio. Meritate essere incoronata, e se nessuno lo vorrà fare, v’incoronerò io, v’incoronerò io.
ELEON. (Gran miracoli che si fanno per quattro spropositi di una pettegola). (a Lelio)
LEL. (Può essere che quel sonetto lo abbia veduto prima d’adesso). (a Eleonora)
OTT. Ora tocca a voi, Adriatico Pantalonico.
TON. Comandela che la serva de quattro spropositi all’improvviso?
OTT. Via, sì, dite qualche cosa di bello.
TON. Le favorissa de darme l’argomento.
FLOR. Ve lo darò io. Dite se nelle donne sia più stimabile la bellezza o la grazia.
TON. Amor, che delle donne ti te val( )
Per mettere in caena i nostri cuori,
Dimme se della donna più preval
I bei graziosi vezzi o i bei colori.
La femmena, che a nu fa ben e mal,
Ora dandone gusti, ora dolori,
Per venzer sempre, e trionfar segura,
La dopera a so tempo arte e natura.
Amor, ti che ti pol andar là drento
In tel cuor di della donna a bisegar,
Che ti sa l’arte, el modo e el fondamento,
Come possa la donna innamorar,
Te prego, in grazia, damme sto contento,
Fa che el vero a capir possa arrivar,
E sappia dir co un poco de dolcezza,
Se più possa la grazia o la bellezza.
Supplico chi m’ascolta aver pazienza,
E voler quel che digo perdonar,
Perché prevedo che la mia sentenza
Ugual diletto a tutti no pol dar.
Amor m’ispira, e spero a sufficienza
De grazia e de beltà poder parlar,
A una delle do s’aspetta el vanto,
E mi dirò la mia opinion col canto.
Il ciel benigno e provido
Vedendo che più fragile
Dell’uomo era la femmina,
Per renderla più amabile,
Per farla compatibile,
Le diè bellezza e grazia.
Le diè ecc.
Quel che bellezza chiamasi
Talora è un viso candido,
Talora bruno o pallido;
Due luci belle diconsi
Talor, perché negrissime,
O pur di color vario;
Talor perché allegrissime,
Talor perché patetiche;
E belle son, se piacciono.
E belle ecc.
Chi vuol la donna picciola,
Chi grande la desidera;
Del grasso chi dilettasi,
E chi la vuol magrissima;
Chi vuol che sappia ridere
Chi vuol che sappia piangere,
E belle chiaman gli uomini
Sol quelle che a lor piacciono.
Sol quelle ecc.
Bellezza è dunque varia,
E non ha certo merito,
E non può i cori accendere,
Se a lei non somministrasi
Valor da noi medesimi.
Valor ecc.
Ma non così la grazia,
La qual da tutti ammirasi,
E d’essa ognun dilettasi,
E ognun, che ad essa accostasi,
Si sente nel cuor ardere.
Si sente ecc.
La grazia, ch’è indelebile,
In una brava femmina
In vecchia età conservasi;
Ma una sgarbata giovine,
Ancorché sia bellissima,
Quando un pochino invecchia,
Si rende altrui ridicola.
Si rende ecc.
Più vale assai lo spirito
D’una bellezza stolida:
Le donne assai più possono
Col vezzo, che col minio.
Bellezza va prestissimo,
La grazia è più durabile:
Quest’è la mia sentenzia.
Quest’è ecc.
Graziose femmine
Se qui m’ascoltano,
Il mio gradiscano
Sincero cor.
E le bellissime
Deh mi perdonino
Ché inimicissimo
Non son di lor.
Molto esse possono
Col volto amabile,
Coll’adorabile
Loro beltà.
Ma della grazia
È il pregio massimo,
Che ancor conservasi
Nell’altra età.
Però confessovi,
Che a me pur piacciono,
Vermiglie o candide,
Le donne ognor,
Che mi ferirono,
E mi feriscono,
Ed esser dubito
Ferito ancor.
Amor, ti ti ha deciso che val più
La grazia femminil della beltà,
Ma parlemose schietto fra de nu:
L’una e l’altra xe forte in verità.
Se spirito gh’avesse, e più virtù,
Diria de tutte do l’attività.
Fenisso, perché v’ho seccà abbastanza;
Se ho dito mal, domando perdonanza.
OTT. Evviva, evviva.
Se ho detto mal, domando perdonanza.
Risuoni questa stanza.
Viva la poesia!
Sonatori, sonate sinfonia.
(si suona sinfonia, e tutti partono)

Angela_______ari@dipoesi@


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