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Giacomo Leopardi

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    00 19/10/2004 22:10


    LA GINESTRA di Giacomo Leopardi





    Qui su l'arida schiena

    Del formidabil monte

    Sterminator Vesevo,

    La qual null'altro allegra arbor né fiore,

    Tuoi cespi solitari intorno spargi,

    Odorata ginestra,

    Contenta dei deserti. Anco ti vidi

    De' tuoi steli abbellir l'erme contrade

    Che cingon la cittade

    La qual fu donna de' mortali un tempo,

    E del perduto impero

    Par che col grave e taciturno aspetto

    Faccian fede e ricordo al passeggero.

    Or ti riveggo in questo suol, di tristi

    Lochi e dal mondo abbandonati amante,

    E d'afflitte fortune ognor compagna.

    Questi campi cosparsi

    Di ceneri infeconde, e ricoperti

    Dell'impietrata lava,

    Che sotto i passi al peregrin risona;

    Dove s'annida e si contorce al sole

    La serpe, e dove al noto

    Cavernoso covil torna il coniglio;

    Fur liete ville e colti,

    E biondeggiàr di spiche, e risonaro

    Di muggito d'armenti;

    Fur giardini e palagi,

    Agli ozi de' potenti

    Gradito ospizio; e fur città famose

    Che coi torrenti suoi l'altero monte

    Dall'ignea bocca fulminando oppresse

    Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

    Una ruina involve,

    Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

    I danni altrui commiserando, al cielo

    Di dolcissimo odor mandi un profumo,

    Che il deserto consola. A queste piagge

    Venga colui che d'esaltar con lode

    Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

    È il gener nostro in cura

    All'amante natura. E la possanza

    Qui con giusta misura

    Anco estimar potrà dell'uman seme,

    Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,

    Con lieve moto in un momento annulla

    In parte, e può con moti

    Poco men lievi ancor subitamente

    Annichilare in tutto.

    Dipinte in queste rive

    Son dell'umana gente

    Le magnifiche sorti e progressive .

    Qui mira e qui ti specchia,

    Secol superbo e sciocco,

    Che il calle insino allora

    Dal risorto pensier segnato innanti

    Abbandonasti, e volti addietro i passi,

    Del ritornar ti vanti,

    E procedere il chiami.

    Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,

    Di cui lor sorte rea padre ti fece,

    Vanno adulando, ancora

    Ch'a ludibrio talora

    T'abbian fra sé. Non io

    Con tal vergogna scenderò sotterra;

    Ma il disprezzo piuttosto che si serra

    Di te nel petto mio,

    Mostrato avrò quanto si possa aperto:

    Ben ch'io sappia che obblio

    Preme chi troppo all'età propria increbbe.

    Di questo mal, che teco

    Mi fia comune, assai finor mi rido.

    Libertà vai sognando, e servo a un tempo

    Vuoi di novo il pensiero,

    Sol per cui risorgemmo

    Della barbarie in parte, e per cui solo

    Si cresce in civiltà, che sola in meglio

    Guida i pubblici fati.

    Così ti spiacque il vero

    Dell'aspra sorte e del depresso loco

    Che natura ci diè. Per questo il tergo

    Vigliaccamente rivolgesti al lume

    Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli

    Vil chi lui segue, e solo

    Magnanimo colui

    Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,

    Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

    Uom di povero stato e membra inferme

    Che sia dell'alma generoso ed alto,

    Non chiama sé né stima

    Ricco d'or né gagliardo,

    E di splendida vita o di valente

    Persona infra la gente

    Non fa risibil mostra;

    Ma sé di forza e di tesor mendico

    Lascia parer senza vergogna, e noma

    Parlando, apertamente, e di sue cose

    Fa stima al vero uguale.

    Magnanimo animale

    Non credo io già, ma stolto,

    Quel che nato a perir, nutrito in pene,

    Dice, a goder son fatto,

    E di fetido orgoglio

    Empie le carte, eccelsi fati e nove

    Felicità, quali il ciel tutto ignora,

    Non pur quest'orbe, promettendo in terra

    A popoli che un'onda

    Di mar commosso, un fiato

    D'aura maligna, un sotterraneo crollo

    Distrugge sì, che avanza

    A gran pena di lor la rimembranza.

    Nobil natura è quella

    Che a sollevar s'ardisce

    Gli occhi mortali incontra

    Al comun fato, e che con franca lingua,

    Nulla al ver detraendo,

    Confessa il mal che ci fu dato in sorte,

    E il basso stato e frale;

    Quella che grande e forte

    Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire

    Fraterne, ancor più gravi

    D'ogni altro danno, accresce

    Alle miserie sue, l'uomo incolpando

    Del suo dolor, ma dà la colpa a quella

    Che veramente è rea, che de' mortali

    Madre è di parto e di voler matrigna.

    Costei chiama inimica; e incontro a questa

    Congiunta esser pensando,

    Siccome è il vero, ed ordinata in pria

    L'umana compagnia,

    Tutti fra sé confederati estima

    Gli uomini, e tutti abbraccia

    Con vero amor, porgendo

    Valida e pronta ed aspettando aita

    Negli alterni perigli e nelle angosce

    Della guerra comune. Ed alle offese

    Dell'uomo armar la destra, e laccio porre

    Al vicino ed inciampo,

    Stolto crede così qual fora in campo

    Cinto d'oste contraria, in sul più vivo

    Incalzar degli assalti,

    Gl'inimici obbliando, acerbe gare

    Imprender con gli amici,

    E sparger fuga e fulminar col brando

    Infra i propri guerrieri.

    Così fatti pensieri

    Quando fien, come fur, palesi al volgo,

    E quell'orror che primo

    Contra l'empia natura

    Strinse i mortali in social catena,

    Fia ricondotto in parte

    Da verace saper, l'onesto e il retto

    Conversar cittadino,

    E giustizia e pietade, altra radice

    Avranno allor che non superbe fole,

    Ove fondata probità del volgo

    Così star suole in piede

    Quale star può quel ch'ha in error la sede.

    Sovente in queste rive,

    Che, desolate, a bruno

    Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

    Seggo la notte; e su la mesta landa

    In purissimo azzurro

    Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,

    Cui di lontan fa specchio

    Il mare, e tutto di scintille in giro

    Per lo vòto seren brillare il mondo.

    E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

    Ch'a lor sembrano un punto,

    E sono immense, in guisa

    Che un punto a petto a lor son terra e mare

    Veracemente; a cui

    L'uomo non pur, ma questo

    Globo ove l'uomo è nulla,

    Sconosciuto è del tutto; e quando miro

    Quegli ancor più senz'alcun fin remoti

    Nodi quasi di stelle,

    Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo

    E non la terra sol, ma tutte in uno,

    Del numero infinite e della mole,

    Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle

    O sono ignote, o così paion come

    Essi alla terra, un punto

    Di luce nebulosa; al pensier mio

    Che sembri allora, o prole

    Dell'uomo? E rimembrando

    Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

    Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,

    Che te signora e fine

    Credi tu data al Tutto, e quante volte

    Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

    Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

    Per tua cagion, dell'universe cose

    Scender gli autori, e conversar sovente

    Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi

    Sogni rinnovellando, ai saggi insulta

    Fin la presente età, che in conoscenza

    Ed in civil costume

    Sembra tutte avanzar; qual moto allora,

    Mortal prole infelice, o qual pensiero

    Verso te finalmente il cor m'assale?

    Non so se il riso o la pietà prevale.

    Come d'arbor cadendo un picciol pomo,

    Cui là nel tardo autunno

    Maturità senz'altra forza atterra,

    D'un popol di formiche i dolci alberghi,

    Cavati in molle gleba

    Con gran lavoro, e l'opre

    E le ricchezze che adunate a prova

    Con lungo affaticar l'assidua gente

    Avea provvidamente al tempo estivo,

    Schiaccia, diserta e copre

    In un punto; così d'alto piombando,

    Dall'utero tonante

    Scagliata al ciel profondo,

    Di ceneri e di pomici e di sassi

    Notte e ruina, infusa

    Di bollenti ruscelli

    O pel montano fianco

    Furiosa tra l'erba

    Di liquefatti massi

    E di metalli e d'infocata arena

    Scendendo immensa piena,

    Le cittadi che il mar là su l'estremo

    Lido aspergea, confuse

    E infranse e ricoperse

    In pochi istanti: onde su quelle or pasce

    La capra, e città nove

    Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello

    Son le sepolte, e le prostrate mura

    L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.

    Non ha natura al seme

    Dell'uom più stima o cura

    Che alla formica: e se più rara in quello

    Che nell'altra è la strage,

    Non avvien ciò d'altronde

    Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

    Ben mille ed ottocento

    Anni varcàr poi che spariro, oppressi

    Dall'ignea forza, i popolati seggi,

    E il villanello intento

    Ai vigneti, che a stento in questi campi

    Nutre la morta zolla e incenerita,

    Ancor leva lo sguardo

    Sospettoso alla vetta

    Fatal, che nulla mai fatta più mite

    Ancor siede tremenda, ancor minaccia

    A lui strage ed ai figli ed agli averi

    Lor poverelli. E spesso

    Il meschino in sul tetto

    Dell'ostel villereccio, alla vagante

    Aura giacendo tutta notte insonne,

    E balzando più volte, esplora il corso

    Del temuto bollor, che si riversa

    Dall'inesausto grembo

    Su l'arenoso dorso, a cui riluce

    Di Capri la marina

    E di Napoli il porto e Mergellina.

    E se appressar lo vede, o se nel cupo

    Del domestico pozzo ode mai l'acqua

    Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,

    Desta la moglie in fretta, e via, con quanto

    Di lor cose rapir posson, fuggendo,

    Vede lontan l'usato

    Suo nido, e il picciol campo,

    Che gli fu dalla fame unico schermo,

    Preda al flutto rovente,

    Che crepitando giunge, e inesorato

    Durabilmente sovra quei si spiega.

    Torna al celeste raggio

    Dopo l'antica obblivion l'estinta

    Pompei, come sepolto

    Scheletro, cui di terra

    Avarizia o pietà rende all'aperto;

    E dal deserto foro

    Diritto infra le file

    Dei mozzi colonnati il peregrino

    Lunge contempla il bipartito giogo

    E la cresta fumante,

    Che alla sparsa ruina ancor minaccia.

    E nell'orror della secreta notte

    Per li vacui teatri,

    Per li templi deformi e per le rotte

    Case, ove i parti il pipistrello asconde,

    Come sinistra face

    Che per vòti palagi atra s'aggiri,

    Corre il baglior della funerea lava,

    Che di lontan per l'ombre

    Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

    Così, dell'uomo ignara e dell'etadi

    Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno

    Dopo gli avi i nepoti,

    Sta natura ognor verde, anzi procede

    Per sì lungo cammino

    Che sembra star. Caggiono i regni intanto,

    Passan genti e linguaggi: ella nol vede:

    E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

    E tu, lenta ginestra,

    Che di selve odorate

    Queste campagne dispogliate adorni,

    Anche tu presto alla crudel possanza

    Soccomberai del sotterraneo foco,

    Che ritornando al loco

    Già noto, stenderà l'avaro lembo

    Su tue molli foreste. E piegherai

    Sotto il fascio mortal non renitente

    Il tuo capo innocente:

    Ma non piegato insino allora indarno

    Codardamente supplicando innanzi

    Al futuro oppressor; ma non eretto

    Con forsennato orgoglio inver le stelle,

    Né sul deserto, dove

    E la sede e i natali

    Non per voler ma per fortuna avesti;

    Ma più saggia, ma tanto

    Meno inferma dell'uom, quanto le frali

    Tue stirpi non credesti

    O dal fato o da te fatte immortali.




    Giacomo Leopardi

    [Modificato da ariadipoesia 24/10/2004 15.48]

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    00 19/10/2004 22:17
    tra tutte le bellissime poesie di Leopardi questa è quella a cui sono legato di piu', fa parte dell'ultimo periodo di Leopardi , il " periodo Titanico" alcune delle strofe della Ginestra furono dettate da Leopardi, prima di morire, qui il poeta cerca vendetta e verita ' dagli uomini , è una persona che durante la vita come tutti noi sappiamo , non ha avuto vita facile , secondo me questa è la sua poesia piu vera e sentita ha trasformato un fiore in uno strumento del destino come solo i grandi sanno fare....:SMILE49:
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    00 24/10/2004 15:43
    Alla Luna



    Alla Luna

    Giacomo Leopardi

    O graziosa luna, io mi rammento
    Che, or volge l'anno, sovra questo colle
    Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
    E tu pendevi allor su quella selva
    Siccome or fai, che tutta la rischiari.
    Ma nebuloso e tremulo dal pianto
    Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
    Il tuo volto apparia, che travagliosa
    Era mia vita: ed è, nè cangia stile
    O mia diletta luna. E pur mi giova
    La ricordanza, e il noverar l'etate
    Del mio dolore. Oh come grato occorre
    Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
    La speme e breve ha la memoria il corso
    Il rimembrar delle passate cose,
    Ancor che triste, e che l'affanno duri!

    Angela_______ari@dipoesi@


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    00 24/10/2004 15:45
    Passero solitario




    Passero solitario
    di Giacomo Leopardi

    D'in su la vetta della torre antica,
    Passero solitario, alla campagna
    Cantando vai finché non more il giorno;
    Ed erra l'armonia per questa valle.
    Primavera dintorno
    Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
    Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
    Odi greggi belar, muggire armenti;
    Gli altri augelli contenti, a gara insieme
    Per lo libero ciel fan mille giri,
    Pur festeggiando il lor tempo migliore:
    Tu pensoso in disparte il tutto miri;
    Non compagni, non voli,
    Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
    Canti, e così trapassi
    Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
    Oimè, quanto somiglia
    Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
    Della novella età dolce famiglia,
    E te german di giovinezza, amore,
    Sospiro acerbo de' provetti giorni,
    Non curo, io non so come; anzi da loro
    Quasi fuggo lontano;
    Quasi romito, e strano
    Al mio loco natio,
    Passo del viver mio la primavera.
    Questo giorno ch'omai cede alla sera,
    Festeggiar si costuma al nostro borgo.
    Odi per lo sereno un suon di squilla,
    Odi spesso un tonar di ferree canne,
    Che rimbomba lontan di villa in villa.
    Tutta vestita a festa
    La gioventù del loco
    Lascia le case, e per le vie si spande;
    E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
    Io solitario in questa
    Rimota parte alla campagna uscendo,
    Ogni diletto e gioco
    Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
    Steso nell'aria aprica
    Mi fere il Sol che tra lontani monti,
    Dopo il giorno sereno,
    Cadendo si dilegua, e par che dica
    Che la beata gioventù vien meno.
    Tu, solingo augellin, venuto a sera
    Del viver che daranno a te le stelle,
    Certo del tuo costume
    Non ti dorrai; che di natura è frutto
    Ogni vostra vaghezza.
    A me, se di vecchiezza
    La detestata soglia
    Evitar non impetro,
    Quando muti questi occhi all'altrui core,
    E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
    Del dì presente più noioso e tetro,
    Che parrà di tal voglia?
    Che di quest'anni miei? che di me stesso?
    Ahi pentirommi, e spesso,
    Ma sconsolato, volgerommi indietro.
    Angela_______ari@dipoesi@


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    curioso
    00 28/10/2004 02:38
    Canto notturno di un pastore errante dell’Asia


    (Giacomo Leopardi)




    Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

    Silenziosa luna?

    Sorgi la sera, e vai,

    Contemplando i deserti; indi ti posi.

    Ancor non sei tu paga

    Di riandare i sempiterni calli?

    Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

    Di mirar queste valli?

    Somiglia alla tua vita

    La vita del pastore.

    Sorge in sul primo albore;

    Move la greggia oltre pel campo, e vede

    Greggi, fontane' ed erbe;

    Poi stanco si riposa in su la sera:

    Altro mai non íspera.

    Dimmi, o luna: a che vale

    Al pastor la sua vita,

    La vostra vita a Voi? dimmi; ove tende

    Questo vagar mio breve,

    Il tuo corso immortale?





    Vecchierel bianco, infermo,

    Mezzo vestito e scalzo,

    Con gravissimo fascio in su le spalle,

    Per montagna e per valle,

    Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

    Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

    L'ora, e quando poi gela,

    Corre via, corre, anela,

    Varca torrenti e stagni,

    Cade, risorge, e più e più s'affretta,

    Senza posa o ristoro

    Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

    Colà dove la via

    E dove il tanto affaticar fu volto:

    Abisso orrido, immenso,

    Ov’ei precipitando, il tutto obblia.

    Vergine luna, tale

    E’ la vita mortale.





    Nasce l'uomo a fatica,

    Ed è ríschio di morte il nascimento.

    Prova pena e tormento

    Per prima cosa; e in sul principio stesso

    La madre e il genitore

    Il prende a consolar dell'esser nato.

    Poi che crescendo viene,

    L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

    Con atti e con parole

    Studiasi fargli core,

    E consolarlo dell'umano stato:

    Altro ufficio più grato

    Non si fa da parenti alla lor prole.

    Ma perché dare al sole,

    Perché reggere in vita

    Chi poi di quella consolar convenga?

    Se la vita è sventura,

    Perché da noi si dura?

    Intatta luna, tale

    E' lo stato mortale.

    Ma tu mortal non sei,

    E forse dei mio dir poco ti cale.





    Pur tu, solinga, eterna peregrina,

    Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

    Questo viver terreno,

    Il patir nostro, il sospirar, che sia;

    Che sia questo morir, questo supremo

    Scolorar del sembiante,

    E perir dalla terra, e venir meno

    Ad ogni usata, amante compagnia.

    E tu certo comprendi

    Il perché delle cose, e vedi il frutto

    Dei mattin, della sera,

    Del tacito, infinito andar del tempo.

    Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

    Rida la primavera,

    A chi giovi l'ardore, e che procacci

    li verno co' suoi ghiacci.

    Mille cose sai tu, mille discopri,

    Che son celate al semplice pastore.

    Spesso quand'io ti miro

    Star così muta in sul deserto piano,

    Che, in suo giro lontano, al ciel confina;

    Ovver con la mia greggia

    Seguirmi viaggiando a mano a mano;

    E quando miro in cielo arder le stelle;

    Dico fra me pensando:

    A che tante facelle?

    Che fa l'aria infinita, e quel profondo

    Infinito seren? che vuol dir questa

    Solitudine immensa? ed io che sono?

    Così meco ragiono: e della stanza

    Smisurata e superba,

    E dell'innumerabile famiglia;

    Poi di tanto adoprar, di tanti moti

    D'ogni celeste, ogni terrena cosa,

    Girando senza posa,

    Per tornar sempre là donde son mosse;

    Uso alcuno, alcun frutto

    Indovinar non so. Ma tu per certo,

    Giovinetta immortal, conosci il tutto.

    Questo io conosco e sento,

    Che degli eterni giri,

    Che dell'esser mio frale,

    Qualche bene o contento

    Avrà fors'altri; a me la vita è male.





    O greggia mia che posi, oh te beata,

    Che la miseria tua, credo, non sai !

    Quanta invidia ti porto!

    Non sol perché d'affanno

    Quasi libera vai;

    Ch'ogni stento, ogni danno,

    Ogni estremo timor subito scordi;

    Ma più perché giammai tedio non provi.

    Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

    Tu se' queta e contenta;

    E gran parte dell'anno

    Senza noia consumi in quello stato.

    Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

    E un fastidio m'ingombra

    La mente, ed uno spron quasi mi punge

    Sì che, sedendo, più che mai son lunge

    Da trovar pace o loco.

    E pur nulla non bramo,

    E non ho fino a qui cagion di pianto.

    Quel che tu goda o quanto,

    Non so già dir; ma fortunata sei.

    Ed io godo ancor poco,

    O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

    Se tu parlar sapessi, io chiederei:

    Dimmi: perché giacendo

    A bell'agio,ozioso,

    S'appaga ogni animale;

    Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?





    Forse s'avess'io l'ale

    Da volar su le nubi,

    E noverar le stelle ad una ad una,

    O come il tuono errar di giogo in giogo,

    Più felice sarei, dolce mia greggia,

    Più felice sarei, candida luna.

    O forse erra dal vero,

    Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero.

    Forse in qual forma, in quale

    Stato che sia, dentro covile o cuna,

    E’ funesto a chi nasce il dì natale.
    [Modificato da ariadipoesia 31/08/2008 12:27]