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.... “Il cielo stellato sopra di me”, ovvero “che fai tu luna in ciel, dimmi che fai silenziosa luna”


Relazione poetica del Prof. Antonio Mungo






C’è del capriccio nei movimenti della luna: giunge con ritardo “ai nostri” appuntamenti, nasconde accuratamente metà della sua superficie, si eclissa e riesce anche a far scomparire il sole.
Una delle sue caratteristiche più “personali” consiste, nel fatto che la sua presenza nel cielo non sembra costante e che nel periodo nel quale risplende fra le stelle, i suoi aspetti variano di notte in notte.
E’, insomma, un astro mutevole; all’appuntamento giunge ogni sera con un ritardo alquanto sensibile; ed è diversa, gradatamente più splendente, gradatamente meno splendente, con un’acmé di splendore… Poi scompare per un certo numero di giorni ed è vano attenderla, nel cielo, fra le stelle.


Selene, infatti, figlia bizzarra, volubile, incostante di Iperione e Teia, sorella di Helios, solca il cielo notturno, va alla ricerca di Endimione, figlio di Zeus e di Calice, eternamente giovane e nella grotta del monte Latmos giace con lui ogni notte, lo contempla e lo avvolge con la sua luce.
La luna non è luce; non ha raggi la luna. Domina incontrastata il cielo della notte. E’ faro ai marinai in pericolo nei flutti, è guida a chi è smarrito nei sentieri intricati.

Satellite banale, ha ispirato la voce dei poeti, il canto di chi, sensibile al bello e all’armonia, si lascia incantare dallo spettacolo sublime del suo volto. Non ha luminosità la luna ma la comunica agli altri, a chi sa scoprirla nel suo alone di magia; non emana calore ma lo produce nell’anima di chi ne osserva i contorni; non ha che il colore dell’argento ma crea tutta la gamma dei colori e le loro sfumature.
E’ questo il suo fascino!
Tutti i poeti l’hanno cantata, tanti pittori l’anno interpretata, molti musicisti l’hanno invocata. La luna: muta sacerdotessa del mistero è lassù, fredda, distante. Riesce ad illuminare del chiarore che non è suo chi ha dentro di sé la luce e che la poesia fa vibrare; chi, sensibile, l’osserva e se ne estasia.

Nell’incanto di certi pleniluni in cui la sua luce si riflette sulla terra, appare ancora più misteriosa. Il suo colore argento rende tutto spettrale, sbiadito, dai colori attenuati.

Asterev men amfi kalan selannan
Ay apukruptoisi faennon eidov,
optata plhqoisa malista lamph.
gan < epi paisan >
arguria

“Le stelle, intorno alla bella luna
A loro volta nascondono il loro fulgente aspetto,
quando piena, al massimo risplende su tutta la terra
argentea


Plhrhv men efainet’ a selanna,
Ai d’ wv peri bwmon estaqhsan.

Piena si mostrava la luna
e le stelle si disposero come intorno ad un altare



E la luna brilla e incanta, affascina e ammalia. Lassù si trovano tutte le cose che si perdono nel mondo e nella vita, gli amori, le fedi, i giuramenti, le promesse, i sogni, le speranze, i propositi, i pentimenti: e tutto alla rinfusa, come la roba smessa in una soffitta o la merce nella bottega di un rigattiere:

“Molta fama è lassù, che come tarlo
Il tempo a lungo andar qua giù divora:
lassù infiniti prieghi e voti stanno,
che da noi peccatori a Dio si fanno.
Le lacrime e i sospiri degli amanti,
l’inutil tempo che si perde a giuoco,
e l’ozio lungo d’uomini ignoranti,
vani disegni che non ha mai loco,
i vani desideri sono tanti,
che la più parte ingombran di quel loco:
ciò che in somma qua giù perdesti mai,
lassù salendo ritrovar potrai.”


E tutti ci proiettiamo lassù e ci inebriamo nel sogno, nei sogni, spesso troppo lusingatori e ingannatori. Altrettanto utili, però, per creare quelle illusioni di cui si sente il bisogno, per non rendere la vita un deserto.

Tutti giuriamo “per la sacra luna che lassù riveste d’argento le cime degli alberi” ma non bisogna “giurare sulla luna, quella incostante luna che ogni mese trasmuta nell’orbita sua”, affinché non sia vano il giuramento.

E il giuramento è vano: Selene si allontana tra le rocce del Latmos e lascia il cielo senza luce… Ma lassù, più su, ecco risplendere le stelle del firmamento, le eterne faville.
Le gocce di latte cadute dal seno di Hera sono ormai galassia. Miliardi di stelle, distribuite nello spazio per miliardi di chilometri distanti da noi miliardi e miliardi di chilometri: le nubi di Magellano, la nebulosa del Triangolo, la nebulosa di Andromeda.
Andromeda la bellissima che si vantava di essere più incantevole di Hera e delle Nereidi. La giovane deve pagare il fio per la sua colpa “innocente”. Deve affrontare il mostro crocifissa ad uno scoglio. Questi la tormenta, non smette di infliggerle dolore. Ma ecco arrivare Pérseo, reduce da mille avventure. Pietrifica il mostro togliendo da un sacco la testa di Medusa e si compie il miracolo. Sposa la fanciulla che si crede felice. Ma il destino di Andromeda non è di questa terra.
Atena, la dea inflessibile, la muta in costellazione e da lassù, colpevole ingiustamente, superata la porta del tempo che macina uomini e cose, guarda il fluire degli esseri in quest’atomo opaco del male, dove i miracoli non avvengono più, se non nel sogno, nelle illusioni, nelle inutili speranze.

Ha bisogno di luce questo atomo insignificante e gli dei sono stati, almeno una volta, prodighi: a piene mani ne hanno rovesciato, e queste lontane faville sono la proiezione dei nostri desideri nascosti, dei nostri rimpianti, delle nostre nostalgie, delle nostre piccole complicità. Ed ecco tra le stelle Cassiopea, madre di Andromeda che ne divide il destino, posta lassù, dove si dilegua il limite spaziale e temporale e si rinnova il mistero senza fine bello.

“E le stelle perforano le tenebre e la notte cupa si accende”. così canta Manilio, l’astronomo poeta dell’età di Tiberio ed aggiunge:

“Tum conferta licet caeli fulgentia templa
Cernere seminibus minimis totumque micare
(spiritus aut solidis desinint sitque haec discordia concors)
Stipatum stellis mundum nec cedere summa
Floribus aut siccae curvum per litus harenae
Sed, quot eant semper nascentes aequore fluctus,
quot delapsa cadant foliorum milia silvis,
amplius hoc igne numero volitare per orbem.”

“Allora è dato da vedere i templi del cielo affollati di luce e tutto sfavillare di fiammelle minutissime (manca unità all’insieme, eppure è un disordine ordinato), granaio di stelle il firmamento; e la massa non appare minore ai fiori o all’arena che si asciuga sulle spiagge lunate; bensì quanti sono i flutti che scompaiono e sempre rinascono sul dorso del mare, o le foglie che a migliaia cadono e volteggiano nelle foreste, ebbene, più fuochi circolano nel cielo”.


E luce sulla terra ecco brillare ancora insieme, ormai è per sempre, Orione e le sue Pleiadi. Sorelle delle Iadi, figlie di Atlante e di Etra, germane amatissime di Iante, giovane dalla breve vita. Quando questi morì, divorato dalle fiere, le Iadi piansero fino al disfacimento e divennero stelle nella costellazione del Toro.

Le Iadi piovose sorgono quando comincia la stagione delle piogge e alimentano con l’acqua la natura assetata dopo le giornate roventi di estate. Sono accanto alle sorelle morte, le quali si uccisero per il dolore.
Mutate in stelle, sei: Elettra, Maia, Taigeta, Alcione, Celeno, Sterope brillano ben visibili nel cosmo: la sola Merope, la settima, si nasconde per la vergogna, in quanto ha avuto come sposo un mortale, Cresfonte, re di Messenia. Tutte sono state care ad Orione, il gigante cacciatore che ebbe la ventura di amare anche Artemide, la selvaggia, la vergine feroce e che fu avvolto da destino di morte.
E’ il gioco eterno fra Eros e Thanatos. Apollo è ostile all’amore della sorella per il gigante, suo compagno di caccia. Un giorno vedendo Orione allontanarsi nel mare, incitò Artemide a colpire con una freccia quel punto remoto che stava scomparendo all’orizzonte. La dea accetta la sfida e scaglia una delle sue infallibili frecce, colpendo il bersaglio.

Quando la corrente marina portò a riva il bel corpo esamine di Orione, Artemide pianse inconsolabile e Zeus, impietosito, mutò il cacciatore in costellazione ponendolo accanto alle fanciulle infelici, le Pleiadi, sensibili e delicate figlie di Atlante e Pleione.


Amore e morte, instancabili nell’esigere sacrifici dai mortali, sono i testimoni gelosi e solleciti di Berenice, la sfortunata regina di Egitto, giustiziata dal suo stesso figlio. Berenice, moglie di Tolomeo III Evergete, quando questi parte per una missione impossibile in Siria, fa voto di sacrificare la sua chioma ad Afrodite. La chioma è posta in una teca sull’altare della dea. Improvvisamente i capelli scompaiono.
La dea ha accettato il dono, li ha portati in cielo e li ha mutati nella costellazione detta, appunto, Chioma di Berenice. E questa brilla lassù testimoniando un patto di amore eterno che vince e supera il brivido del tempo.

Le stelle, testimoni mute delle illusioni e dei disinganni degli uomini, servono certamente ad allietare con il loro ammiccare le notti illuni; entrano nel vocabolario adoperato dagli innamorati, ispirano i poeti e i musicisti e restano lassù a guardare gli umani che si perdono nel gran mare dell’essere, distratti da mille incombenze e oberati da mille oneri. Offrono ristoro, infondono pace, comunicano una dolcezza che è ineffabile.

Ed il sole? Diverso è il suo valore per noi.
Quando l’uomo cominciò ad interrogare l’universo, la sua attenzione fu portata intensamente verso il sole; e con l’attenzione una venerazione profonda: verso l’astro “incorruttibile” andava ogni giorno l’anelito di animi ingenui. Apollo-Helios trionfa nel cielo sul carro d’oro preceduto da Eos, splendendo da oriente ad occidente, inondando di luce intensa il cosmo e divenendo il simbolo stesso della deità, attorno alla quale ruotano i pianeti che, dall’antichità, accesero la fantasia dei Greci, creatori di miti, amanti del brivido che questi comunicano.
Mercurio, piccolo e veloce, gelido e rovente, privo di aria e di acqua, mostra, come la luna, sempre la stessa faccia;
Venere, pianeta luminosissimo, visibile solo all’alba o al tramonto, momento in cui riesce ad oscurare le stelle crepuscolari più luminose come Sirio e Vega, nasconde sotto un’impenetrabile atmosfera, quasi tutti i suoi misteri.

Si possono avere ad opera sua eclissi parziali di sole, molto suggestive quanto rare e che durano al massimo otto ore. Venere luminosa, deorum hominumque alma mater è una fanciulla con la fiaccola in mano che precede, nella notte, la luna. Da questa immagine si ricava il nome greco di Fosforo o Espero, volendo significare, con il primo nome, la sua rapida apparizione all’alba e, con il secondo, la sua del pari rapida apparizione al tramonto.
Privo della spessa coltre di nubi che avvolge Venere, Marte ci appare come l’astro ardente, splendente come una stella e, talora, più di Sirio. C’è vita: si è sempre favoleggiato di una forma di vita su Marte, l’acqua e la neve ci sono sicuramente state…e se l’acqua, come afferma Talete e ribadisce Telesio, favorisce la vita….
Ecco più su il pianeta più grande e più veloce: Giove il padre degli uomini e degli dei merita tale immensità. Il re dell’Olimpo supera con la sua luce, quando ci è molto vicino, ogni stella. E’ un sole in miniatura, attorniato com’è dai suoi dodici satelliti, quelli definiti da Galilei medìcei – Io, Europa, Ganimede, suo coppiere, Callisto – e dagli altri otto dai nomi meno poetici, in quanto serie di numeri.
Di notevole mole il vecchio Saturno, il Kronos greco, titano figlio di Urano e Gea, personificazione del tempo, regna dopo aver evirato e detronizzato il padre.
Padre di Demetra, Hera, Ades, Poseidone, Hestia e Zeus che, a sua volta lo detronizzerà e scaglierà nel Tartaro assieme ai Titani ribelli, Saturno è il più leggero e il più schiacciato dei pianeti, avvolto dagli anelli che lo rendono unico e suggestivo. I suoi satelliti: Titano, Rea, madre di tutti gli dei, Japeto, il colosso, Dione, in origine sposa di Zeus e con lui adorata a Dodona nel suggestivo tempio, posto nel luogo in cui i fulmini sono più roboanti e frequenti rispetto a tutta l’Europa. Ed ancora Teti, Enceladus, il titano che quando si muove scuote tutta la Sicilia, Mimas l’immenso, Iperione che con la sorella generò Helios, Selene, Eos.

E poi, visibile solo al telescopio, Urano. Poco denso, con lunghe stagioni, avvolto da una cappa di ghiaccio, presenta una intensa attività fisica. Quindi Nettuno, il dio del mare. Il pianeta è stato scoperto mediante il calcolo da uno sconosciuto geometra francese.
Infine Plutone. Per scoprirlo fu necessario l’esame fotografico di mezzo milione di stelle. E’ l’ultimo dei nove fratelli. Dopo Plutone incominciano altri mondi. Il nostro termina là a sei miliardi di chilometri dal sole. Ma la luce non si spegne. Le comete, esili messaggeri di mondi lontani, che si dissolvono dolcemente avvicinandosi al sole, appaiono improvvise, fulgide, eteree per scomparire, ben presto nel nulla donde erano apparse.

E noi, da millenni, alziamo gli occhi al cielo, e ancora oggi lo scrutiamo desiderosi di “noverar le stelle ad una ad una “ e a cantare la “placida notte” e il “verecondo raggio della cadente luna e Venere che spunta “fra la tacita selve in su la rupe, nunzio del giorno” e ansiosi di magnificare le innumerevoli pallide stelle, che, “dall’alto dei mondi sereni, infiniti, immortali”, “con tenero pianto” inondano “quest’atomo opaco del Male” oppure, cum tacet nox, furtivos hominum vident amores.
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[Modificato da fiordineve 28/10/2004 3.00]