Stellar Blade Un'esclusiva PS5 che sta facendo discutere per l'eccessiva bellezza della protagonista. Vieni a parlarne su Award & Oscar!
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Giacomo Leopardi

Ultimo Aggiornamento: 28/10/2004 02:38
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LA GINESTRA di Giacomo Leopardi





Qui su l'arida schiena

Del formidabil monte

Sterminator Vesevo,

La qual null'altro allegra arbor né fiore,

Tuoi cespi solitari intorno spargi,

Odorata ginestra,

Contenta dei deserti. Anco ti vidi

De' tuoi steli abbellir l'erme contrade

Che cingon la cittade

La qual fu donna de' mortali un tempo,

E del perduto impero

Par che col grave e taciturno aspetto

Faccian fede e ricordo al passeggero.

Or ti riveggo in questo suol, di tristi

Lochi e dal mondo abbandonati amante,

E d'afflitte fortune ognor compagna.

Questi campi cosparsi

Di ceneri infeconde, e ricoperti

Dell'impietrata lava,

Che sotto i passi al peregrin risona;

Dove s'annida e si contorce al sole

La serpe, e dove al noto

Cavernoso covil torna il coniglio;

Fur liete ville e colti,

E biondeggiàr di spiche, e risonaro

Di muggito d'armenti;

Fur giardini e palagi,

Agli ozi de' potenti

Gradito ospizio; e fur città famose

Che coi torrenti suoi l'altero monte

Dall'ignea bocca fulminando oppresse

Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno

Una ruina involve,

Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi

I danni altrui commiserando, al cielo

Di dolcissimo odor mandi un profumo,

Che il deserto consola. A queste piagge

Venga colui che d'esaltar con lode

Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto

È il gener nostro in cura

All'amante natura. E la possanza

Qui con giusta misura

Anco estimar potrà dell'uman seme,

Cui la dura nutrice, ov'ei men teme,

Con lieve moto in un momento annulla

In parte, e può con moti

Poco men lievi ancor subitamente

Annichilare in tutto.

Dipinte in queste rive

Son dell'umana gente

Le magnifiche sorti e progressive .

Qui mira e qui ti specchia,

Secol superbo e sciocco,

Che il calle insino allora

Dal risorto pensier segnato innanti

Abbandonasti, e volti addietro i passi,

Del ritornar ti vanti,

E procedere il chiami.

Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,

Di cui lor sorte rea padre ti fece,

Vanno adulando, ancora

Ch'a ludibrio talora

T'abbian fra sé. Non io

Con tal vergogna scenderò sotterra;

Ma il disprezzo piuttosto che si serra

Di te nel petto mio,

Mostrato avrò quanto si possa aperto:

Ben ch'io sappia che obblio

Preme chi troppo all'età propria increbbe.

Di questo mal, che teco

Mi fia comune, assai finor mi rido.

Libertà vai sognando, e servo a un tempo

Vuoi di novo il pensiero,

Sol per cui risorgemmo

Della barbarie in parte, e per cui solo

Si cresce in civiltà, che sola in meglio

Guida i pubblici fati.

Così ti spiacque il vero

Dell'aspra sorte e del depresso loco

Che natura ci diè. Per questo il tergo

Vigliaccamente rivolgesti al lume

Che il fe' palese: e, fuggitivo, appelli

Vil chi lui segue, e solo

Magnanimo colui

Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle,

Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.

Uom di povero stato e membra inferme

Che sia dell'alma generoso ed alto,

Non chiama sé né stima

Ricco d'or né gagliardo,

E di splendida vita o di valente

Persona infra la gente

Non fa risibil mostra;

Ma sé di forza e di tesor mendico

Lascia parer senza vergogna, e noma

Parlando, apertamente, e di sue cose

Fa stima al vero uguale.

Magnanimo animale

Non credo io già, ma stolto,

Quel che nato a perir, nutrito in pene,

Dice, a goder son fatto,

E di fetido orgoglio

Empie le carte, eccelsi fati e nove

Felicità, quali il ciel tutto ignora,

Non pur quest'orbe, promettendo in terra

A popoli che un'onda

Di mar commosso, un fiato

D'aura maligna, un sotterraneo crollo

Distrugge sì, che avanza

A gran pena di lor la rimembranza.

Nobil natura è quella

Che a sollevar s'ardisce

Gli occhi mortali incontra

Al comun fato, e che con franca lingua,

Nulla al ver detraendo,

Confessa il mal che ci fu dato in sorte,

E il basso stato e frale;

Quella che grande e forte

Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire

Fraterne, ancor più gravi

D'ogni altro danno, accresce

Alle miserie sue, l'uomo incolpando

Del suo dolor, ma dà la colpa a quella

Che veramente è rea, che de' mortali

Madre è di parto e di voler matrigna.

Costei chiama inimica; e incontro a questa

Congiunta esser pensando,

Siccome è il vero, ed ordinata in pria

L'umana compagnia,

Tutti fra sé confederati estima

Gli uomini, e tutti abbraccia

Con vero amor, porgendo

Valida e pronta ed aspettando aita

Negli alterni perigli e nelle angosce

Della guerra comune. Ed alle offese

Dell'uomo armar la destra, e laccio porre

Al vicino ed inciampo,

Stolto crede così qual fora in campo

Cinto d'oste contraria, in sul più vivo

Incalzar degli assalti,

Gl'inimici obbliando, acerbe gare

Imprender con gli amici,

E sparger fuga e fulminar col brando

Infra i propri guerrieri.

Così fatti pensieri

Quando fien, come fur, palesi al volgo,

E quell'orror che primo

Contra l'empia natura

Strinse i mortali in social catena,

Fia ricondotto in parte

Da verace saper, l'onesto e il retto

Conversar cittadino,

E giustizia e pietade, altra radice

Avranno allor che non superbe fole,

Ove fondata probità del volgo

Così star suole in piede

Quale star può quel ch'ha in error la sede.

Sovente in queste rive,

Che, desolate, a bruno

Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,

Seggo la notte; e su la mesta landa

In purissimo azzurro

Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,

Cui di lontan fa specchio

Il mare, e tutto di scintille in giro

Per lo vòto seren brillare il mondo.

E poi che gli occhi a quelle luci appunto,

Ch'a lor sembrano un punto,

E sono immense, in guisa

Che un punto a petto a lor son terra e mare

Veracemente; a cui

L'uomo non pur, ma questo

Globo ove l'uomo è nulla,

Sconosciuto è del tutto; e quando miro

Quegli ancor più senz'alcun fin remoti

Nodi quasi di stelle,

Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo

E non la terra sol, ma tutte in uno,

Del numero infinite e della mole,

Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle

O sono ignote, o così paion come

Essi alla terra, un punto

Di luce nebulosa; al pensier mio

Che sembri allora, o prole

Dell'uomo? E rimembrando

Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno

Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,

Che te signora e fine

Credi tu data al Tutto, e quante volte

Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro

Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,

Per tua cagion, dell'universe cose

Scender gli autori, e conversar sovente

Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi

Sogni rinnovellando, ai saggi insulta

Fin la presente età, che in conoscenza

Ed in civil costume

Sembra tutte avanzar; qual moto allora,

Mortal prole infelice, o qual pensiero

Verso te finalmente il cor m'assale?

Non so se il riso o la pietà prevale.

Come d'arbor cadendo un picciol pomo,

Cui là nel tardo autunno

Maturità senz'altra forza atterra,

D'un popol di formiche i dolci alberghi,

Cavati in molle gleba

Con gran lavoro, e l'opre

E le ricchezze che adunate a prova

Con lungo affaticar l'assidua gente

Avea provvidamente al tempo estivo,

Schiaccia, diserta e copre

In un punto; così d'alto piombando,

Dall'utero tonante

Scagliata al ciel profondo,

Di ceneri e di pomici e di sassi

Notte e ruina, infusa

Di bollenti ruscelli

O pel montano fianco

Furiosa tra l'erba

Di liquefatti massi

E di metalli e d'infocata arena

Scendendo immensa piena,

Le cittadi che il mar là su l'estremo

Lido aspergea, confuse

E infranse e ricoperse

In pochi istanti: onde su quelle or pasce

La capra, e città nove

Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello

Son le sepolte, e le prostrate mura

L'arduo monte al suo piè quasi calpesta.

Non ha natura al seme

Dell'uom più stima o cura

Che alla formica: e se più rara in quello

Che nell'altra è la strage,

Non avvien ciò d'altronde

Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.

Ben mille ed ottocento

Anni varcàr poi che spariro, oppressi

Dall'ignea forza, i popolati seggi,

E il villanello intento

Ai vigneti, che a stento in questi campi

Nutre la morta zolla e incenerita,

Ancor leva lo sguardo

Sospettoso alla vetta

Fatal, che nulla mai fatta più mite

Ancor siede tremenda, ancor minaccia

A lui strage ed ai figli ed agli averi

Lor poverelli. E spesso

Il meschino in sul tetto

Dell'ostel villereccio, alla vagante

Aura giacendo tutta notte insonne,

E balzando più volte, esplora il corso

Del temuto bollor, che si riversa

Dall'inesausto grembo

Su l'arenoso dorso, a cui riluce

Di Capri la marina

E di Napoli il porto e Mergellina.

E se appressar lo vede, o se nel cupo

Del domestico pozzo ode mai l'acqua

Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,

Desta la moglie in fretta, e via, con quanto

Di lor cose rapir posson, fuggendo,

Vede lontan l'usato

Suo nido, e il picciol campo,

Che gli fu dalla fame unico schermo,

Preda al flutto rovente,

Che crepitando giunge, e inesorato

Durabilmente sovra quei si spiega.

Torna al celeste raggio

Dopo l'antica obblivion l'estinta

Pompei, come sepolto

Scheletro, cui di terra

Avarizia o pietà rende all'aperto;

E dal deserto foro

Diritto infra le file

Dei mozzi colonnati il peregrino

Lunge contempla il bipartito giogo

E la cresta fumante,

Che alla sparsa ruina ancor minaccia.

E nell'orror della secreta notte

Per li vacui teatri,

Per li templi deformi e per le rotte

Case, ove i parti il pipistrello asconde,

Come sinistra face

Che per vòti palagi atra s'aggiri,

Corre il baglior della funerea lava,

Che di lontan per l'ombre

Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.

Così, dell'uomo ignara e dell'etadi

Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno

Dopo gli avi i nepoti,

Sta natura ognor verde, anzi procede

Per sì lungo cammino

Che sembra star. Caggiono i regni intanto,

Passan genti e linguaggi: ella nol vede:

E l'uom d'eternità s'arroga il vanto.

E tu, lenta ginestra,

Che di selve odorate

Queste campagne dispogliate adorni,

Anche tu presto alla crudel possanza

Soccomberai del sotterraneo foco,

Che ritornando al loco

Già noto, stenderà l'avaro lembo

Su tue molli foreste. E piegherai

Sotto il fascio mortal non renitente

Il tuo capo innocente:

Ma non piegato insino allora indarno

Codardamente supplicando innanzi

Al futuro oppressor; ma non eretto

Con forsennato orgoglio inver le stelle,

Né sul deserto, dove

E la sede e i natali

Non per voler ma per fortuna avesti;

Ma più saggia, ma tanto

Meno inferma dell'uom, quanto le frali

Tue stirpi non credesti

O dal fato o da te fatte immortali.




Giacomo Leopardi

[Modificato da ariadipoesia 24/10/2004 15.48]

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tra tutte le bellissime poesie di Leopardi questa è quella a cui sono legato di piu', fa parte dell'ultimo periodo di Leopardi , il " periodo Titanico" alcune delle strofe della Ginestra furono dettate da Leopardi, prima di morire, qui il poeta cerca vendetta e verita ' dagli uomini , è una persona che durante la vita come tutti noi sappiamo , non ha avuto vita facile , secondo me questa è la sua poesia piu vera e sentita ha trasformato un fiore in uno strumento del destino come solo i grandi sanno fare....:SMILE49:
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Alla Luna



Alla Luna

Giacomo Leopardi

O graziosa luna, io mi rammento
Che, or volge l'anno, sovra questo colle
Io venia pien d'angoscia a rimirarti:
E tu pendevi allor su quella selva
Siccome or fai, che tutta la rischiari.
Ma nebuloso e tremulo dal pianto
Che mi sorgea sul ciglio, alle mie luci
Il tuo volto apparia, che travagliosa
Era mia vita: ed è, nè cangia stile
O mia diletta luna. E pur mi giova
La ricordanza, e il noverar l'etate
Del mio dolore. Oh come grato occorre
Nel tempo giovanil, quando ancor lungo
La speme e breve ha la memoria il corso
Il rimembrar delle passate cose,
Ancor che triste, e che l'affanno duri!

Angela_______ari@dipoesi@


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Passero solitario




Passero solitario
di Giacomo Leopardi

D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia vòto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
Angela_______ari@dipoesi@


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28/10/2004 02:38
 
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Canto notturno di un pastore errante dell’Asia


(Giacomo Leopardi)




Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,

Silenziosa luna?

Sorgi la sera, e vai,

Contemplando i deserti; indi ti posi.

Ancor non sei tu paga

Di riandare i sempiterni calli?

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga

Di mirar queste valli?

Somiglia alla tua vita

La vita del pastore.

Sorge in sul primo albore;

Move la greggia oltre pel campo, e vede

Greggi, fontane' ed erbe;

Poi stanco si riposa in su la sera:

Altro mai non íspera.

Dimmi, o luna: a che vale

Al pastor la sua vita,

La vostra vita a Voi? dimmi; ove tende

Questo vagar mio breve,

Il tuo corso immortale?





Vecchierel bianco, infermo,

Mezzo vestito e scalzo,

Con gravissimo fascio in su le spalle,

Per montagna e per valle,

Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte,

Al vento, alla tempesta, e quando avvampa

L'ora, e quando poi gela,

Corre via, corre, anela,

Varca torrenti e stagni,

Cade, risorge, e più e più s'affretta,

Senza posa o ristoro

Lacero, sanguinoso; infin ch'arriva

Colà dove la via

E dove il tanto affaticar fu volto:

Abisso orrido, immenso,

Ov’ei precipitando, il tutto obblia.

Vergine luna, tale

E’ la vita mortale.





Nasce l'uomo a fatica,

Ed è ríschio di morte il nascimento.

Prova pena e tormento

Per prima cosa; e in sul principio stesso

La madre e il genitore

Il prende a consolar dell'esser nato.

Poi che crescendo viene,

L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre

Con atti e con parole

Studiasi fargli core,

E consolarlo dell'umano stato:

Altro ufficio più grato

Non si fa da parenti alla lor prole.

Ma perché dare al sole,

Perché reggere in vita

Chi poi di quella consolar convenga?

Se la vita è sventura,

Perché da noi si dura?

Intatta luna, tale

E' lo stato mortale.

Ma tu mortal non sei,

E forse dei mio dir poco ti cale.





Pur tu, solinga, eterna peregrina,

Che sì pensosa sei, tu forse intendi,

Questo viver terreno,

Il patir nostro, il sospirar, che sia;

Che sia questo morir, questo supremo

Scolorar del sembiante,

E perir dalla terra, e venir meno

Ad ogni usata, amante compagnia.

E tu certo comprendi

Il perché delle cose, e vedi il frutto

Dei mattin, della sera,

Del tacito, infinito andar del tempo.

Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore

Rida la primavera,

A chi giovi l'ardore, e che procacci

li verno co' suoi ghiacci.

Mille cose sai tu, mille discopri,

Che son celate al semplice pastore.

Spesso quand'io ti miro

Star così muta in sul deserto piano,

Che, in suo giro lontano, al ciel confina;

Ovver con la mia greggia

Seguirmi viaggiando a mano a mano;

E quando miro in cielo arder le stelle;

Dico fra me pensando:

A che tante facelle?

Che fa l'aria infinita, e quel profondo

Infinito seren? che vuol dir questa

Solitudine immensa? ed io che sono?

Così meco ragiono: e della stanza

Smisurata e superba,

E dell'innumerabile famiglia;

Poi di tanto adoprar, di tanti moti

D'ogni celeste, ogni terrena cosa,

Girando senza posa,

Per tornar sempre là donde son mosse;

Uso alcuno, alcun frutto

Indovinar non so. Ma tu per certo,

Giovinetta immortal, conosci il tutto.

Questo io conosco e sento,

Che degli eterni giri,

Che dell'esser mio frale,

Qualche bene o contento

Avrà fors'altri; a me la vita è male.





O greggia mia che posi, oh te beata,

Che la miseria tua, credo, non sai !

Quanta invidia ti porto!

Non sol perché d'affanno

Quasi libera vai;

Ch'ogni stento, ogni danno,

Ogni estremo timor subito scordi;

Ma più perché giammai tedio non provi.

Quando tu siedi all'ombra, sovra l'erbe,

Tu se' queta e contenta;

E gran parte dell'anno

Senza noia consumi in quello stato.

Ed io pur seggo sovra l'erbe, all'ombra,

E un fastidio m'ingombra

La mente, ed uno spron quasi mi punge

Sì che, sedendo, più che mai son lunge

Da trovar pace o loco.

E pur nulla non bramo,

E non ho fino a qui cagion di pianto.

Quel che tu goda o quanto,

Non so già dir; ma fortunata sei.

Ed io godo ancor poco,

O greggia mia, né di ciò sol mi lagno.

Se tu parlar sapessi, io chiederei:

Dimmi: perché giacendo

A bell'agio,ozioso,

S'appaga ogni animale;

Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale?





Forse s'avess'io l'ale

Da volar su le nubi,

E noverar le stelle ad una ad una,

O come il tuono errar di giogo in giogo,

Più felice sarei, dolce mia greggia,

Più felice sarei, candida luna.

O forse erra dal vero,

Mirando all'altrui sorte, il mio pensiero.

Forse in qual forma, in quale

Stato che sia, dentro covile o cuna,

E’ funesto a chi nasce il dì natale.
[Modificato da ariadipoesia 31/08/2008 12:27]
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